
In una ninna-nanna Lu piccineddu miu, quandu nascìu
Lu Papa a Roma la missa cantàu
Nu panarieddu de denaru nchìu
E allu piccinnu miu li lu donàu
[Il bambinello mio, quando nacque
Il Papa a Roma la messa cantò
Un cestello di denaro riempì
E al mio bambino glielo offrì]
(Salento) di Alberto Sobrero

Bruno Maggio. China
Abbiamo osservato più volte che il proverbio, nella società contadina, aveva la forma di un motto facile da memorizzare, lo scopo apparente di descrivere aspetti della vita umana, lo scopo reale di stabilire e imporre comportamenti rispondenti sostanzialmente a esigenze di conservazione di un certo ordine sociale. In pratica, funzionava come una fonte para-legislativa.
Problema: come instillare nell’uomo l’obbligo di seguire questi precetti, se mancano strumenti per costringerlo a farlo, per fissare e irrogare pene? Ovvero: come si attua una ‘moral suasion’ che induca a certi comportamenti in modo convinto e duraturo, dalla culla alla tomba, solo attraverso la tradizione orale?
Ecco una risposta indiretta: attraverso l’educazione, precoce e permanente. Un’opera capillare, quotidiana, insistita, di martellante ripetizione e rinforzo del messaggio, in forme ora accattivanti ora perentorie ora minacciose, non in poche ore di frequenza obbligatoria di corsi d’istruzione ma in tutte le ore di tutti i giorni; non con il lavoro di educatori stipendiati ma con quello disinteressato (gratuito) e convinto dei genitori, dei compagni, degli amici, in ogni occasione e in ogni circostanza. Sin dai primi anni, anzi dai primi mesi di vita.
Ad esempio con le ninne-nanne, come quella che abbiamo ora sotto gli occhi. Vediamola da vicino. La veste, accattivante, è costituita da uno schema metrico che assicura una facile memorizzazione: quattro endecasillabi a rima alternata, ogni verso diviso in due emistichi (Lu piccineddu miu / quandu nascìu // Lu Papa a Roma / la missa cantàu // Nu panarieddu / de denaru nchìu // E allu piccinnu miu / li lu donàu), il ritmo facile ed orecchiabile. ‘Piccinneddu miu’ che apre il primo verso apre poi anche il quarto, creando una specie di rima interna. Con questi espedienti metrici e con il ritmo facile e ben scandito si crea un’atmosfera di serena dolcezza, un clima di gioiosa intimità, un’aria festosa. È il dialogo stretto, intimo, quasi carnale, fra la madre che lo culla e il bambino che sta per addormentarsi.
Quali sono i contenuti di questo messaggio così intimo, coinvolgente, materno? Il senso generale è: io sono felice perché sono la mamma di un bambino fortunato; e tu sei fortunato perché il Papa stesso ha celebrato una messa cantata, ha riempito un cestello di denaro e te l’ha regalato.
I valori assoluti esposti in primo piano – collegati alla felicità – sono la religione e il denaro. La religione è simboleggiata dalla figura suprema del papa e dal rito solenne della messa cantata; del denaro si esalta un’abbondanza leggendaria. Soldi e religione sono il massimo della felicità: ma si tratta di una felicità-mito, irraggiungibile dai comuni mortali (che mai vedranno il Papa, mai avranno una messa cantata, mai vedranno una cesta ricolma di denaro). Non una prospettiva concreta ma, appunto, un mito, una meta lontana a cui tendere. Sono già delineati in questi quattro versi i valori di riferimento, gli orizzonti lontani di una società, quelli su cui il bambino, diventato adulto, dovrà costruire la sua vita.
È solo una ninna-nanna: il bimbo ha pochi mesi, ma è già cominciata, con un ritmo allegro e una canzoncina facile facile, l’instillazione del sistema dei valori e dei precetti di vita, delle leggi non scritte che governeranno il suo futuro.
Sarà compito dei proverbi proseguire l’opera, riprendendo e potenziando il messaggio e creando così, giorno per giorno, un sistema normativo non scritto ma più forte e coercitivo di un codice civile.