Un deserto affollato sembra essere quello proposto dall’ultimo avvincente romanzo di Sergio D’Amaro, Il grande ghibli (Nardò (Le), Besa Editrice, 2016, pp. 96, € 13). L’autore, muovendosi con abilità tra spazio e tempo, ci conduce attraverso un viaggio che ha un pretesto e una storia da raccontare. Il pretesto è il vento caldo che spazza impetuosamente il deserto. La storia è quella che sembra dimenticata perché coperta dalla sabbia, sempre mobile, del deserto stesso. Il deserto libico, nella sua immensità, è affollato di ricordi, di speranze, di vite sospese tra la storia, il sogno e la realtà. Lo spunto nasce dal ritrovamento (ma quante volte ritroviamo ciò che in realtà non abbiamo mai perso?) di alcune vecchie foto di famiglia ingiallite dal tempo. Un uomo in divisa coloniale nel deserto libico. Sogno infranto di una conquista che dimostrerà nel tempo tutti i suoi limiti. Come tutte le conquiste porterà inesorabilmente con sé la guerra, i combattimenti, i massacri e i campi di concentramento. La teoria delle razze che si concretizza attraverso il filo spinato, macabra anticipazione di quello che sarebbe di lì a poco successo in altre latitudini.
Ma la conquista portava con sé, realtà o demagogia che fosse, anche il sogno di emigrare continuando a parlare la stessa lingua. Una sorta di emigrazione al contrario: non più derisi e disprezzati, gli italiani avrebbero potuto lavorare e prosperare da uomini liberi e forse anche da padroni. Il deserto, protagonista misterioso quanto implacabile, si trasforma in scenario di grandi e piccoli eventi e in metafora della vita sempre discontinua e imprevedibile. Il deserto diventa così uno specchio impetuoso di un’Italia più povera ma anche più buona che oggi non c’è più. Siamo andati in Libia con l’idea di coltivare agrumi, come in Sicilia, come sul Gargano o sul lago di Garda, ma oggi, nei centri commerciali troviamo solo limoni che provengono dall’altra parte del Mediterraneo o dell’Atlantico. Un’Italia ingenua, diremmo oggi. Soldati che confondono i bagliori notturni dei colpi di cannone con i fuochi d’artificio della festa del paese.
Un intero popolo catturato da un sogno. Un altro popolo intero che si ribella. In mezzo una geografia in perenne sommovimento. Alla fine, come spesso accade senza accorgercene, non furono loro a conquistare l’Africa, ma fu l’Africa a conquistarli. Durante la seconda guerra mondiale le truppe italiane tentarono inutilmente di sfondare le linee inglesi. Oggi a El Alamein c’è un cippo che ricorda il punto di massima avanzata, a soli 111 km da Alessandria d’Egitto. Su quel cippo, un’enorme pietra posta nel deserto, campeggia la scritta: “Mancò la fortuna non il valore”.
Sono parole che ci costringono a riflettere. Forse, penso, mancò la fortuna non solo ai militari che lì combatterono, ma anche a tutti quelli che hanno inseguito un sogno che poi si è infranto. Ma la relazione tra fortuna e valore ha anche un altro nome. La chiamiamo vita. Il deserto è come il cammino della vita, discontinuo e imprevedibile. Si spera che oltre quelle dune si intraveda una città con i muri delle sue case, i palmizi salutari, la torre del minareto che chiama i fedeli. Si arriva, invece, a un altro immenso avvallamento…
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