La “second life” del paese fantasma Abbandonata dopo una frana all’inizio degli anni Sessanta, Craco, sempre disabitata, è oggi una meta turistica che attira masse di visitatori e un’ambita location per film e pubblicità di tutto il mondo di Lino Patruno
Craco (Matera). Foto di Nicola Amato
Quando ci andai la prima volta, nel 1987, Craco era stata abbandonata da tempo. Era stata la frana del 1963 a far fuggire a valle la sua gente, duemila persone, da quei 391 metri incapaci di reggersi in piedi. Di fronte ai calanchi lucani, che sono un paesaggio lunare di pietra orribilmente rigata dalle cicatrici dell’acqua. Nel 1972 un’alluvione fece il resto, poi ci si misero improvvidi lavori di un acquedotto. E il terremoto del 1980 infine.
Ma anche se già allora Craco era un paese-fantasma, era come se non lo fosse. Perché le sue case erano state lasciate con tutta la loro vita dentro. Quasi che un giorno si sarebbero potute ripopolare, avrebbero potuto respirare di nuovo. Le tende mosse dal vento. E le finestre socchiuse. E qui una pentola ancora sul fornello. E qui un orsacchiotto di pelouche. E qui una tavola apparecchiata. E qui le coperte su un letto. Mancavano voci, colori, odori, sapori ma era come se ci fossero. Messi in pausa, diremmo oggi. E qualche irriducibile che davvero c’era ancora, vecchi che volevano morire lì. E un gatto che scendeva da un tetto. E il paese sembrava guardare con i suoi occhi nel vuoto per non essere dimenticato.
Trent’anni dopo, sotto il sole crudele di agosto, sciamano i visitatori come in pellegrinaggio a un cimitero più che a un museo. Perché Craco è sempre lì. Ma è scomparso ogni segno di vita vissuta, spazzata dagli uomini più che dal tempo. Un saccheggio sistematico, non sono rimasti neanche i pavimenti, strappate ringhiere, divelti portoni. Portato tutto via non come una reliquia della pietà popolare, ma come segno di una inciviltà che cancella ogni cosa, a cominciare dal passato. Rubato anche l’organo dalla chiesa, lasciate solo le statue dei santi perché non si sa mai.
Ma nonostante tutto, appare resistente a ogni insulto la tragica bellezza di uno fra i cento posti da salvare al mondo. E che deve proprio al suo destino crudele il suo imprevisto successo turistico, visto che solo nel ferragosto scorso i visitatori che ne hanno attraversato il dolore sono stati centinaia. Anzi hanno istituito una “Craco card” per percorrere la parte messa in sicurezza. Ma sono migliaia ogni anno, e di ogni lingua del globo. Attratti da questa Pompei della Basilicata dalla terra fragile e inquieta quanto dalla impagabile bellezza.
Dovrebbero proteggerla con una cappa di vetro, lassù sulla collina sulla quale appare all’improvviso a chi arriva da contrade un tempo percorse dai briganti. Svettante come un monumento, altera come un sacrario, triste come un sudario, eccitante come una visione. Figlia di un fato che l’ha voluta morta per farla vivere. Perché mai avrebbe immaginato la piccola Craco di diventare un prodotto globale quale oggi è. Location, così si dice, di più di dieci film e neanche dell’orrore, anzi compreso uno 007, mi chiamo Bond, James Bond. E di spot televisivi per ogni tipo di nuova auto, su quei tornanti mozzafiato. E di uno della Pepsi per il mercato giapponese. E di una telenovela brasiliana. Ciò che è la sua inimmaginabile “second life”, seconda vita. L’unicità al mondo. Ma anche il suo definitivo destino.
Difficile ipotizzare una sua ricostruzione, meno ardua tecnicamente di quanto non lo sia burocraticamente. Introvabili i proprietari delle case. Mai ritirato l’ordine di sgombero. Dissolta dagli anni e dall’emigrazione la sua gente. Ma soprattutto Craco più provvidenziale così, con i frutti della modernità che danno da vivere a guide, cooperative, associazioni. Così il paese-fantasma continuerà a guardarci per sempre, orrido e struggente e rassegnato. E a richiamarci non più ormai e solo come un posto da extraterrestri, sorta di relitto cosmico. Ma con la segreta speranza di raccontarci anche il suo c’era una volta, quando col pelouche ci giocava un bambino.
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