Un libro per non dimenticare Nel 1965, in Svizzera, 88 lavoratori, in gran parte emigranti italiani, persero la vita per un crollo di ghiaccio mentre costruivano una diga. Un toccante saggio dello studioso Toni Riccardi, dell’Università di Ginevra, ne ricostruisce la storia di Sergio D’Amaro
In un appassionato saggio storico, Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana (Roma, Donzelli, 2015, pp. 172, € 27,00), Toni Ricciardi dell’Università di Ginevra ricostruisce le tappe di una pagina nera dell’emigrazione italiana, quella di Mattmark, avvenuta cinquant’anni fa nella regione svizzera del Vallese. ‘’Erano le 17,15 di quel maledetto lunedì, il 30 agosto 1965, quando dal ghiacciaio dell’Allalin, che da settimane stava venendo giù a pezzi, si staccarono più di due milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti. In pochi secondi tutto – le baracche, la mensa, le officine, decine di camion e di potentissimi bulldozer – fu spazzato via e sepolto sotto oltre 50 metri di ghiaccio e detriti’’.
Una catastrofe biblica che costò la vita a 88 tra tecnici e operai, colpendo soprattutto maestranze di origine italiana (ben 56), tutte di origine veneta e meridionale con un’età media di trent’anni. Tra i meridionali c’erano campani, calabresi, lucani, molisani e pugliesi (delle salentine di Ugento e Tiggiano). L’autore ne elenca in appendice tutti i nomi a giusta memoria di un sacrificio che ebbe, tra l’altro, un esito giudiziario paradossale e, come quasi sempre succede, contro ogni sensata sete di giustizia.
In realtà, la tragedia era stata ampiamente annunciata. Segnali anche evidenti di cedimento del ghiacciaio si erano avuti nei mesi precedenti, in gran parte causati dalla particolare successione delle condizioni climatiche (temperatura molto bassa nell’inverno precedente e poi pioggia abbondante). Nei giorni immediatamente prima del grande crollo interi blocchi di ghiaccio e alcune slavine si erano riversate sull’immenso cantiere alle falde dell’Allalin. Si era in Svizzera e sembrava che tutto fosse stato calcolato per tenere al sicuro quel migliaio di persone impegnate senza sosta. Una fatale leggerezza che ricorda molto da vicino la catastrofe del Vajont, di appena due anni prima, e come il Vajont risoltasi in una gigantesca bugia e in imperdonabili silenzi sul pericolo incombente.
Anche la colossale lingua dell’Allalin non fu meno crudele, trovandosi per di più in una zona che aveva regalato, già a partire dal ’500, diverse alluvioni e aveva dimostrato che la bellezza struggente della natura mal si concilia con certi suoi comportamenti. Tra i monti del Vallese erano rimasti incantati già, tra ‘700 e ‘800, gli occhi di Rousseau, Goethe e Chateaubriand, senza poter assolutamente prevedere che un secolo e mezzo più tardi quei magici strapiombi di duemila e più metri avrebbero incastonato tra le loro pareti sbarramenti idroelettrici di inusitata potenza. Mattmark, al colmo della sua energia, fu in grado di sviluppare, a partire dal ’69, qualcosa come 650 GWh, corrispondente all’energia per circa 150 mila famiglie medie. Per realizzarla ci vollero 15 anni, 97 mila tonnellate di cemento, 2800 tonnellate di acciaio per l’armatura, 1500 tonnellate di esplosivo, 81 milioni di kWh di energia, 51 km di gallerie per incanalare le acque e 14 milioni di ore di lavoro.
Fu l’energia che contribuì a spingere l’Italia sull’acceleratore del boom economico. Ma tutto questo costò sacrifici sovrumani e comportò un alto numero di vittime, come ben sottolineò Dino Buzzati in un superbo articolo sul Corriere della Sera del 1° settembre ’65: nessun sindacato e nessun tribunale furono in grado di riscattarne almeno la memoria, a cui adesso finalmente e solo in parte, con vibrante pietas, il libro di Ricciardi ha cercato di porre rimedio.
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