C’è ancora poco tempo per salvare la cultura tradizionale e l’antropologia che vi era connessa. Un mondo durato secoli, che si sta sciogliendo fin nelle ultime pendici di una montagna abituata a crolli e frane, squassata com’è dall’incalzare della vita ipermoderna di oggi. È un’intera dimensione del tempo che è cambiata, spinta dalla meccanica e dall’elettronica a strapparsi orologi ormai troppo lenti, fatalmente legati ad un modo d’essere basato sul ciclo delle stagioni e sul microcosmo contadino e artigianale collocato nelle campagne e nei borghi popolari delle province italiane.
Ci vorrebbero molte più iniziative per conservare e tramandare il messaggio di un tale passato. Quando qualcuna di queste pepite emerge alla luce non se ne può essere che lieti.
Si attaglia a questo la riscoperta del ricco patrimonio etnografico del paese garganico di San Marco in Lamis che sta facendo da almeno vent’anni Grazia Galante, impegnata ora a pubblicare ‘’La vadda de Stignane’’ e altri canti popolari di San Marco in Lamis (con prefazione di Rafaele Nigro e trascrizione musicale di Michelangelo Martino, Levante editori, Bari, pp. 380, euro 25,00). Niente, è dichiarato in premessa, nostalgia per una tale operazione, niente mitologie rétro del cosiddetto ‘’mondo contadino’’, niente inviti a invertire l’ordine del calendario ritornando ad un benessere perduto. Se tutto questo non c’è, allora il libro è un’attenta ricostruzione, confortata da un CD contenente 66 registrazioni realizzate dal Mastering AMP Studio di Ciro Iannacone, di un pezzo significativo di una comunità ad esclusiva cultura orale, che sapeva fare della comunicazione canora e musicale (le serenate erano accompagnate da strumenti) un efficace veicolo di espressione di una gamma pressoché completa di sentimenti, che andavano dall’amore allo sdegno, dalla gelosia alla paura, dalla malinconia alla speranza. Era un mondo apparentemente chiuso, giacché per andare a lavorare i maschi – che fossero adulti o giovani – erano costretti a spostamenti anche in luoghi lontani: sul Gargano avveniva che si dovesse scendere verso la ‘Pugghja’, cioè la pianura del Tavoliere, facendo chilometri su chilometri e ritornando, per i più fortunati, sul dorso di pazienti quadrupedi. E poi c’era l’emigrazione a sottolineare il cambiare dei tempi, il fatale distacco dagli orizzonti ancestrali, l’immersione nella modernità alienante, che fruttò anche al repertorio dei canti di San Marco in Lamis riferimenti precisi di lacerante drammaticità.
Il libro, diligentemente distribuito in varie sezioni, va in realtà considerato come una sorta di continuum narrativo. Ogni canto, ogni frammento, apre uno squarcio sul mondo di una volta. Ancora incontriamo un pianeta simile a quello rivelatoci da Levi e De Martino, un universo popolare ben piantato con i piedi per terra ma anche pronto a servirsi, quando bisognasse andare per le spicce, delle forze magiche. Impressiona, in una lunga nenia, la dettagliata sequenza di prove che il bebè dovrà affrontare crescendo senza fare sconti al futuro. E meraviglia trovare nei versi, destinati a una comunità di illetterati, passaggi lirici di evidente fattura poetica, confermando le impressioni che Raffaele Nigro dichiara all’inizio della sua prefazione.
È davvero finito, archiviato, tutto museificabile questo mondo? Pare di no, se interi settori culturali e turistici invocano soggiorni in masseria, plaudano alla bioalimentazione, riservano sempre più spazio al recupero del patto con la natura. I mondi contadini si prendono la rivincita sul moloch tecnico che li aveva sterminati e adesso raccontano la loro storia e i loro canti in comodi CD. La pazienza ha vinto sull’arroganza e gli arzilli novantenni immortalati in una delle foto del libro della Galante sembrano aspettare che qualcuno venga a raccogliere il testimone delle antiche generazioni.
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