Ne pubblichiamo con piacere uno stralcio di Enrica Simonetti
Il viso paffuto, lo sguardo sereno, le mani rovinate tenute sotto la tavola: sto guardando l’ultima foto di Paola, scattata in un giorno felice, distante almeno quattro mesi da questo luglio torrido che ha segnato la sua fine. Ora che il suo corpo è qui dove mi trovo, in una stanza dell’obitorio di Andria, piena di giornalisti, telecamere e smartphone, mi chiedo perché entriamo solo oggi nella vita di questa donna, una pugliese come me, che a 49 anni è morta per troppo lavoro sotto l’umidità inarrestabile di un tendone in campagna, sotto una cappa di silenzi e omertà che ha permesso a qualcuno di utilizzare le sue braccia per ore e ore, con la ricompensa di una manciata di euro e nessun diritto.
Una bracciante agricola. In realtà è la prima volta che ne conosco una; viviamo mondi solo apparentemente contigui e questa sensazione è avvilente, ora che siamo tutti qui, cronisti e inviati, a raccontare una tragedia che non è sola, una vita che appartiene a migliaia di lavoratori come Paola: donne, immigrati, persone che ogni notte hanno un “capo” che li porta nei campi su un pulmino, attraversando chilometri di strade piene di curve e vuote di umanità. Così partiva anche lei, Paola, ogni notte alle tre, da San Giorgio Jonico, dalla Puglia tarantina verso Nord, verso quelle campagne tra Canosa e Andria, profumate di uva dorata dal sole. Faccio i conti di quel viaggio al buio, che doveva essere amaro: 150 chilometri ogni volta, 300 in tutto ogni giorno, dopo 7 ore almeno di lavoro, con le braccia alzate, con quegli acini d’uva da selezionare che sfioravano il viso di Paola e degli altri. Provo a immaginare il viaggio di ritorno, a 12 ore di distanza dalla partenza, con Paola che forse continuava a sentire sfregare sul suo volto le foglie della vigna. Che strano, per un attimo mi sento seduta al suo fianco nel piccolo pullman carico di almeno venti persone e mi sembra di vederla, con la testa appoggiata al finestrino e il sudore che lascia l’alone sul vetro; intorno a me e a lei dormono tutti. Anche Rosa, che è una di quelle che non smetterebbe mai di parlare, che avrebbe un dialogo persino con le pietre della Murgia pugliese. Dorme il ragazzo marocchino di cui nessuno sa il nome: abbandonato sul sedile con la bocca semiaperta sembra aver perso tutto, anche la sua notoria diffidenza.
Per fortuna dopo pochi istanti riesco a riavermi. Torno a fare l’inviata del giornale che ha pronto un pezzo “a caldo” sulla fine di Paola: settantacinque righe per riassumere un dramma, una vita. Mi hanno mandata qui solo per caso: “Stefano è in ferie, Gaetano parte domani... dai, per questa volta segui tu, del resto è un tema femminile. E poi magari lo passiamo a qualche altro collega, ok Monica?”. Ed eccomi, come tanti altri “lavoratori dell’informazione” a parlare di un universo che non conosco. Caporalato. Acinino, vigneti, braccianti sfruttati come animali. Guardo le mie unghie laccate di smalto blu, guardo la cameraman, anzi la “camerawoman” della Rai che è a due passi da me e non fa altro che lamentarsi per l’orario ritardato della conferenza stampa: “Ma lo sanno che abbiamo la diretta tra 50 minuti? Che aspettano a darci le notizie?”. Il giornalista che è con lei va fuori a fumare una sigaretta e decido di raggiungerlo. Trovo un’altra decina di persone, tutte accomunate da quella “boccata” che ci fa gustare la reciproca compagnia, per pochi attimi, prima di tornare nei nostri mondi divisi.
(...)
È uno squarcio di Medioevo che si apre in quella che qualcuno definisce la California del Sud, la Puglia dei pomodori saporiti, delle olive da sogno, dell’uva dolce da esportare in mezzo mondo. La Puglia del mare e delle masserie di lusso, la Puglia dei trulli diventati resort a cinque stelle. In questa terra, bella e aspra, finita da qualche tempo sulle copertine delle riviste di viaggio e sulle pubblicità dei bus inglesi e irlandesi, c’è la notte di chi guarda le stelle da una spiaggia e la notte di chi viaggia per lavorare. Ci sono persone che con contratti fasulli o senza alcun contratto, percorrono centinaia di chilometri per raggiungere il loro incerto posto di lavoro, in cui la scrivania è una cassetta della frutta vuota e capovolta su cui salire e restare in piedi con le braccia alzate a togliere gli acini piccoli da un grappolo d’uva.
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