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Quando il cinema ritorna al futuro The walk e Spectre. La libertà in bilico sul filo di Oscar Iarussi
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Una scena di The walk

Leggenda vuole che il padre dei fratelli Lumière giudicasse “un’invenzione senza futuro” il cinematografo appena concepito nel 1895 a Parigi. Non è andata proprio così, il che oltretutto la dice lunga sulla perspicacia dei genitori. Non v’è dubbio infatti che il cinema sia un simulacro della macchina del tempo, ovvero quanto di più vicino si possa immaginare al sogno dell’uomo di viaggiare in epoche diverse, che si tratti di risuscitare gli spiriti del passato o di costruire un futuro allettante. 

Ogni tanto alcuni film giungono a ribadire questa valenza onirica eppure profondamente “realistica” del Cinema. Non sono sempre film d’autore, magari di quelli – prediletti da Woody Allen – che contengono la parola “morte” nel titolo. Anzi, spesso la resistenza immaginifica al presente “immutabile” o la scorribanda fra utopie e distopie si annida in prodotti spettacolari di massa. Pensate per esempio a Blade Runner di Ridley Scott e a Ritorno al futuro di Robert Zemeckis che nella prima metà degli anni Ottanta influirono non poco sulla pre-visione dei tempi, fondando modelli pop e “archetipi” che hanno fatto breccia persino nei modi di dire.

In queste settimane è nelle sale l’ultimo film di Zemeckis, The Walk, una biografia del funambolo francese Philippe Petit al clou nella leggendaria impresa del 7 agosto 1974. Petit camminò per un’ora su e giù lungo un cavo sospeso tra le Torri Gemelle del World Trade Center di New York, a 400 metri dal suolo senza protezione alcuna, tranne quella dei numi delle altezze. Gli stessi dèi si distrassero l’11 settembre 2001 quando le Torri furono centrate e abbattute da due aerei controllati dai terroristi islamici. Il film è già stato recensito su queste colonne (Vito Attolini, 2 novembre), ma qui mette conto rilevare la paradossale “nostalgia del futuro” che Zemeckis e il suo protagonista Joseph Gordon-Levitt riescono a infondere. Ovviamente The Walk non fa cenno al crollo delle Torri – l’evento mediatico più inflazionato di tutti i tempi, visto e rivisto milioni di volte –, ma è inevitabile non pensarvi. È impossibile non “riguardare” l’11 settembre 2001 con lo sguardo retrospettivo del 1974 e con la grazia “aerea” del protagonista. 

All’indomani dell’attentato, lo scrittore Don DeLillo parlò di “rovine del futuro” in un articolo memorabile: “Gente che si butta dalle Torri mano nella mano. Questo fa parte della contro-narrazione, uniti mani e spirito, l’umana bellezza dentro il collidere delle reti d’acciaio. Nella defezione di ogni termine di paragone l’avvenimento si impone nella sua unicità. C’è come un vuoto nel cielo”. (In the Ruins of the Future, Harper’s Magazine, dicembre 2001).

Un vuoto nel cielo, un vuoto nella terra (Ground Zero) e un vuoto sullo schermo. Il cortometraggio del messicano Alejandro Gonzáles Iñárritu, uno degli undici registi che raccontarono il “loro” 11 settembre nell’antologia 11’09’’01, è dominato dall’oscurità, interrotta di tanto in tanto dai flash di persone in caduta “libera” dalle Twin Towers. Una rivendicazione disperata di identità: il suicidio nella strage collettiva. In sottofondo, voci confuse registrate quel giorno, imprecazioni, stupori, cronache concitate, una babele radiofonica che lentamente si sublima in una litania, un mantra, una preghiera collettiva. 

Iñárritu andò al cuore della questione: la necessità di inverare la realtà trasfigurata dalla fiction, la “riscoperta” del mondo. Né fu il solo ad ammantare di buio l’evento sullo schermo. Un regista decisamente più “politico”, Michael Moore, opera la stessa scelta in Fahrenheit 9/11 (2004). L’implacabile satira anti-Bush si placa nella scena dedicata alle Torri colpite e Moore lascia che siano le voci sullo schermo cupo a scandire la tragedia che provocò tremila vittime. 

La passeggiata beffarda e poetica nell’epilogo di The Walk, una sfida ai poliziotti e alla forza di gravità, simbolicamente “ricostruisce” pietra su pietra i grattacieli distrutti e restituisce loro una luce siderea: vivida quando è già estinta, come per le stelle e il desiderio (etimo comune). Così Zemeckis continua a desiderare il “ritorno al futuro”, ossessionato dal domani che soltanto nel passato si sarebbe potuto modificare... Ah, se Osama Bin Laden avesse saputo che “la creatività è il crimine perfetto”, secondo il titolo di un libro di Petit!

Per due edifici che “risorgono” sul grande schermo, eccone due che rovinano al principio e alla fine di Spectre: un vetusto palazzo a Città del Messico e una modernissima torre londinese. È il ventiquattresimo capitolo della saga di 007, diretto dal britannico Sam Mendes, con Daniel Craig ormai dubbioso persino di se stesso e perciò assai amabile. James Bond si innamora della tenebrosa gioventù di Léa Seydoux (nel film porta il nome proustiano di Madeleine Swann), sebbene non disdegni le grazie mature di Monica Bellucci, la prima Bond-Milf della serie, una vedova. 

Un altro mondo è possibile per 007? In Spectre la nostalgia di un futuro “alternativo” attiene al ruolo e alle modalità dei servizi segreti, ormai appannaggio di un potere super-tecnologico che preferisce intercettare/ricattare/manipolare chicchessia rispetto alla vecchia azione sul campo. Là dove, dice Ralph Fiennes (il nuovo M), la licenza di uccidere significa parimenti “la licenza di non uccidere”.

Bisogna guardare negli occhi l’antagonista prima di premere il grilletto, aggiunge il direttore del “MI6”. E lo dice all’odioso “professorino”, amico del ministro di turno, che sta unificando i servizi di tutto il mondo, guidato da un delirio di onnipotenza alla Grande Fratello. Il progetto prevede tra l’altro la “rottamazione” di Bond e compagni. Però 007 e i suoi amici non glielo permetteranno, sfuggendo all’esplosione del grattacielo high tech sulle rive del Tamigi. È un crollo speculare e contrario a quello delle Torri Gemelle: qui sono i servizi “deviati” a programmare l’attentato. 

Ben più di quel che si vide, sostenne il filosofo francese Jacques Derrida, fu ciò che l’11 settembre 2001 non si vide ad agire in noi con inusitata violenza, lasciandoci in balia del caos. “Decostruendo” l’evento da par suo, Derrida si chiedeva: cosa è successo nei Boeing? Cosa nelle Torri? E cosa possiamo aspettarci dopo un attacco del genere?

Adesso, alla sua maniera, prova a rispondere 007: dobbiamo aspettarci un deficit crescente di democrazia e un’evanescenza della realtà che, in Spectre, riacquista i suoi contorni soltanto nel deserto marocchino. Abbiamo qualche chance? Sì, perderci negli occhi di una Madeleine o camminare su un filo con la testa fra le nuvole. Non sempre finisce male.

 

Da: La Gazzetta del Mezzogiorno, 12 novembre 2015

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