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- FEBBRAIO 2018 -
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Nel museo delle cere cercando il sogno di un mondo migliore Nell’ultimo romanzo di Raffaele Nigro, Il custode del museo delle cere (Rizzoli), un sontuoso caleidoscopio di storie dentro altre storie.
Statue parlanti che raccontano cent’anni di storia. Il sogno del Socialismo e la morte dell’utopia. Ma forse si può ancora sperare
di Giuseppe Lupo
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In uno dei capitoli di Verifica dei poteri (1965) Franco Fortini scrive: “Il socialismo è stato una favola, sognata per un secolo”. Questa frase, per quanto lontana un cinquantennio dai nostri giorni, si sposa benissimo con Il custode del museo delle cere (Rizzoli, pp. 281, euro 19), la recente opera narrativa con cui Raffaele Nigro prova a rievocare, almeno in termini di simboli e di allegorie, i riverberi mai spenti di un credo politico predicato ai deboli e agli indifesi. L’idea centrale del libro, ciò che sostiene l’impalcatura del racconto e permette al lettore di attraversare le pagine da cima a fondo, consiste proprio nel rapporto di osmosi tra la Storia (quella con la S maiuscola) e i singoli accadimenti che riguardano il destino degli individui, le loro speranze non sempre realizzate, le poche certezze di resistere all’usura del tempo. Ma procediamo con ordine. Incominciamo dalla fine, cioè dalle parole con cui Raffaele Nigro si congeda dai lettori, domandandosi con una buona dose d’ironia (e forse anche con un po’ di polemica) sull’“opportunità” e sull’“inutilità di una siffatta narrativa”. Togliamo subito ogni dubbio: Il custode del museo delle cere è un’opera tanto opportuna quanto utile, è – come già Viaggio a Salamanca (2001), di cui ricorda in un certo modo lo schema narrativo – un sontuoso, ricco, suggestivo caleidoscopio di storie dentro altre storie. La sua forma, infatti, richiama quel tipico raccontare arabo-mediterraneo che ha per compagni di strada Boccaccio o Basile: un nonno invita suo nipote a visitare un museo delle cere, nella città di Bari, dove per miracolo le statue si svegliano dal silenzio e dall’immobilità per elargire un pezzo della loro vita, per specchiare nel gran mare della macrostoria il frammento del proprio tempo vissuto. Si tratta di racconti in cornice, dunque, o di romanzo polifonico. Noi che leggiamo gli strani dialoghi che il nonno si procura con le statue attraversiamo numerose geografie: le epoche dei Goti e dei Bizantini, l’Italia di Federico II, la Sicilia appena prima della battaglia di Lepanto, le gesta brigantesche che hanno infiammato l’appennino meridionale dopo il 1861, l’Albania transitata dall’Impero ottomano nell’orbita stalinista. Valichiamo civiltà e linguaggi diversi fra loro, ma tenuti ben saldi da una sostanziale sfiducia nei confronti di qualsiasi ufficialità; restiamo in bilico fra i tormenti di un passato mai troppo sedimentato e il vento di un futuro che ha fiutato il volto delle chimere. Siamo trascinati da Nigro a riflettere su uno dei motivi più profondi, da cui si origina un sostanziale sospetto non tanto nei confronti della Storia, quanto nella maniera in cui viene raccontata. E ci viene in soccorso il magnifico dialogo tra Borjes (il militare spagnolo inviato in soccorso dei briganti nel Meridione post-unitario) e Crocco (il capo dei briganti). L’uno che crede nella testimonianza scritta e grida: “Le carte sono la storia. Se distruggete la storia distruggete la memoria”; l’altro invece che riconosce il primato della vita sul racconto della storia: “E che conta, egregio signor Borjes: la storia che scriveranno domani o quella che stiamo vivendo oggi?”. Allora – ci chiediamo – un libro che coinvolge simili questioni può essere inutile? Perché dubitare di siffatta narrativa? La risposta sta nelle parole del nonno, quando rivela al nipote che gli scrittori di oggi “si vestono da detective e cercano assassini. Si occupano di amori e fastidi dei politici e della gente del cinema, oppure aspirano a uscire in tivù, indagando su codici misteriosi, sul Graal e su scabrosi omicidi per far svagare i lettori preoccupati dai guai della vita”. Nigro parla usando la bocca delle sue creature, in questo caso un anziano intellettuale mai troppo restio ad ascoltare le sirene di quell’antico progetto di mondo egualitario, il Socialismo appunto, non realizzato se non nelle sue forme degeneri (la dittatura di Enver Hoxha, per esempio), eppure lungamente invocato all’alba del Novecento quale definitivo antidoto ai veleni della Storia. Sarà anche vero che in questo libro-museo non ci sono commissari in azione, né metronotte che vegliano sulle sorti di chi dorme, ma Nigro non teme di inscenare, attraverso i suoi fantasmi di cera e di carne, il più grave degli omicidi: la fine dell’utopia come morte della speranza di un mondo nuovo. È qui, infatti, che conduce la passeggiata di nonno e nipote, due generazioni poste di fronte agli ultimi cento anni, nati all’insegna del Sole dell’Avvenire e purtroppo dipinti come un “secolo malato”. Ciò non vuol dire che i sogni siano stati cancellati dalla faccia della terra. Semmai sono stati banditi dalle mode di una letteratura che va troppo spesso a caccia di colpevoli, quando invece dovrebbe coltivare l’azzardo della memoria quale grammatica dell’identità, partecipare in prima linea al funerale di Raffaele Crovi (uno degli episodi più struggenti del romanzo, probabilmente un settore in cui Nigro va alle radici della sua stessa narrativa), sentendosi interprete ed erede di una vicenda che, da Vittorini a Pasolini, da Carlo Levi a Sciascia, da Scotellaro a Dolci, fa di ciascuna pagina scritta un tribunale della coscienza, un testamento, un vangelo.

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