Ebreo-russo per nascita, poi italiano in America, incontrò la moglie, l’americana Elizabeth Bogert, a una festa di Truman Capote.
Sullo sfondo del loro matrimonio le grandi vicende dell’epoca di Sergio D’Amaro
Misha ed Elizabeth Stille
con la figlia, Lucy.
1952 circa
Condotto dal suo destino verso l’America tanto desiderata, sedotto dalla sua cultura, felice cittadino del mondo in un mondo in radicale trasformazione. Ugo Stille, a conoscerlo più in profondità, riassume percorsi emblematici, diventati amaramente drammatici con le guerre e le dittature della prima metà del Novecento. Ci sbatte contro per via della sua generazione, che avendo per data di nascita il 1919 è costretta a saldare i conti con la storia comunicando e interpretando molti cambiamenti. Lo fa per quasi un cinquantennio dalla tribuna del Corriere della Sera, stando fisicamente lontano un oceano Atlantico, nell’ombelico del mondo che è New York.
Ma andiamo per ordine. Ugo Stille è il famoso giornalista nato con un altro nome, e cioè Mikhail Kamenetzki. La sua famiglia d’origine è scappata dalla Russia bolscevica e si è rifugiata in Italia. Con l’arrivo del regime fascista Kamenetzki, che è uno spirito libero e vuol scrivere liberamente, assume lo pseudonimo suddetto ma, ecco la cosa originale, lo condivide con Giaime Pintor sulle colonne di Oggi. Dopo le leggi razziali e lo scoppio della guerra la vita diventa molto difficile. La famiglia Kamenetzki decide di espatriare nel ’41, approdando ad un più sicuro condominio nell’Upper Side di Manhattan. Poche settimane e Misha sarà arruolato nell’esercito americano impegnato in resoconti per conto del PWB e alla direzione di Radio Palermo. Risalendo su per la penisola apprenderà della morte di Pintor, che in una lettera premonitrice al fratello Luigi scriverà di “non aver trascorso inutilmente questi anni di giovinezza”. Misha Kamenetzki, diventato ormai per tutti Michael U. Stille, si tufferà nel dopoguerra col suo doppio viatico europeo e americano, restando a New York come autorevole corrispondente del Corriere e mostrando ai suoi fedeli lettori l’evoluzione di un mondo in cui domina “la forza delle cose”.
Il figlio del protagonista, Alexander Stille, anche lui noto saggista e giornalista per il New Yorker e il New York Times nonché docente alla Columbia University, ha scritto una lunga e circostanziata doppia biografia, intitolata appunto La forza delle cose. Un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America (Garzanti ed., pp. 467, euro 24,00) che sembra un molto intelligente corpo a corpo di un contrastato rapporto padre-madre. Dentro c’è la ricostruzione del Dna dei paterni Kamenetzki, cui appartiene Mikhail o Misha poi Michael nonché Ugo Stille, e dei materni Bogert, cui appartiene Elizabeth, con una ricchezza di particolari e una spregiudicatezza che sono frutto delle lunghe interviste dell’autore ai genitori, generosi rievocatori di una quarantennale convivenza.
Il colpo di fulmine tra Misha ed Elizabeth, scoccato ad una festa data da Truman Capote, sa di film americano, proprio quello che piaceva al primo, ammiratore dei fortunati registi di origine ebraica come Billy Wilder, Ernst Lubitsch e Fritz Lang. In realtà si mescolarono due mondi molto diversi, quello tutto intellettuale di Misha, a cui faceva capo la grande emigrazione ebraica del Novecento (da Einstein a Horkheimer, da Fermi a Jakobson a Lévi-Strauss), e quello tutto felicemente pragmatico di Elizabeth proveniente dal Midwest ricco e colto. L’America pur sempre ammirata e desiderata di Stille non coincideva del tutto con i suoi tempi e le sue idealità di profugo europeo. Il lavoro di corrispondente lo costrinse alla consultazione di un’infinità di giornali e di riviste che si ammucchiavano dappertutto, invadevano le successive case di New York, prima al 46 West 11th Street e poi al 218 East 61st Street, scendevano lungo le scale, s’impilavano su tavoli e sedie, occupando anche il letto dello studio. Stille era metodico con i suoi orari di giornalista, ma tanto incapace di distinguere in quegli accumuli cartacei le cose importanti, tipo il documento personale, da tutto il resto. Al contrario, le sue due biblioteche, sparse equamente anche nella casa di campagna, e ammontanti a complessivi diecimila volumi, erano ordinatissime, tanto da fargli subito individuare l’assenza di qualche esemplare estratto da Elizabeth per un prestito alle amiche.
Alexander, estensore di questi annali famigliari, ritorna a più riprese sulla diversità dei caratteri, ma in filigrana fa passare le contraddizioni di un tempo più lungo, le vicende che si snodano sullo sfondo dei decenni postbellici. Se c’è un matrimonio più grande, anche questo litigioso, è quello tra America ed Europa (lo stesso del sottotitolo del libro), e se c’è una filosofia superiore che presiede ad ogni epoca, ebbene è quella della “forza delle cose” (la stessa del titolo). Si tratta proprio dell’essenza individuata e distillata nelle migliaia di articoli consegnati da Stille al Corriere, una miniera di illuminazioni sull’oscuro corso del mondo. Nel 1987, nel pieno della crisi del giornale, Stille accettò, lui descritto come un reincarnato Oblomov, di trasferirsi a Milano espressamente chiamatovi a prenderne la direzione. Ci resterà fino al ’92, per poi far ritorno nella sua amata metropoli per gli ultimi tre anni che gli restano. Lo troveranno morto beatamente tra le sue montagne di giornali, quasi a siglare la mano irrinunciabile del proprio destino.
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