Il duomo di Ferrara con riflesso
del Palazzo Municipale.
Foto di Marco Caselli Nirmal
È davvero difficile dipingere il clima morale, l’identità di una città in cui si è sempre vissuti. Gli altri captano l’odore che noi portiamo addosso, non noi, gli altri ci vedono, non noi... Così mentre almanaccavo fra me e me come descrivere per Bridge quel che di irripetibile e unico ha la mia Ferrara, oggi, nel 2012, non mi soccorre niente di più efficace di un mio elzeviro uscito sul Corsera nel 1987. Penso che il suo clima di ex capitale ducale ancora così splendida, insieme a quel carattere di provincia arresa al suo destino minore, eppure così innamorata di se stessa, sia dato coglierli ancora in questo mio scritto. Il topos letterario leopardiano del tormentato rapporto Recanati-Roma spiega molte cose della mentalità ferrarese, ma in realtà penso sia la chiave di interpretazione del rapporto di tutte le città italiane con la capitale più bella del mondo.
R. P.
A Ferrara si può sognare
di Roberto Pazzi
Corriere della Sera, 16 febbraio 1987
“Messer Lodovico, dove mai siete andato a cercare tante coglionerie?”. Queste parole del cardinale Ippolito d’Este a Lodovico Ariosto, dopo che ebbe terminato la lettura dei primi canti del Furioso mi sono cresciute dentro negli anni. Sarà la coincidenza di vivere nella medesima città, di camminare e parlare per le stesse vie di quel Grande, sarà l’inevitabile sovrapporsi di un’immagine letteraria assoluta e perfetta, alla mia, così povera e provvisoria, di uomo sempre in bilico sull’orlo del vuoto per strappare il fiore della parola giusta; quelle parole così definitive e implacabili, invece, mi hanno persuaso e subito illuminato, forse addirittura aiutato a capire in me stesso una comune vicenda.
Da Ferrara chi scrive, concependo questo atto come assoluto, fugge. Nessuno rimane. Bassani, Antonioni, Caretti vivono da sempre altrove. E quei fuggenti sembrano volerci dire che non si può vivere qui. La città ha una sua mitica presenza nella memoria turistica e storica di chi, interrogato a Parigi o Londra se sappia dove si trovi, subito risponde ai suggerimenti di prossimità a Venezia e a Firenze, rimemorando gli Estensi e la Borgia – m’è capitato a Parigi con Erté –. Due secondi dopo, però, capitolerà e correrà a nominare Ravenna, supplendo con i mosaici di quella all’aporia informativa. Eppure non v’è straniero di passaggio di ieri come di oggi che, camminando per piazza Ariostea o nei pressi della casa di Biagio Rossetti, non si stupisca di non esserci già stato, col rimorso d’una tardiva scoperta, mentre sfoglia l’orario ferroviario per il treno che lo porterà nelle più famose vicine città.
Bassani non ha probabilmente colto che un lato intimistico e privato della sua atmosfera elevandola a poesia; forse solo i pittori metafisici, inseguendo la cruda ed elettrica luce di Cosmè Tura, rendono testimonianza assoluta di quell’immobile trasparenza di cristallo che garantisce a questa nave, che viaggia da mille anni nel Tempo, una rotta tranquilla verso un porto ignoto, lo stesso al quale sono diretti i versi di Lodovico Ariosto, che un giorno trovarono nella sordità del cardinale un aiuto a schivare destinazioni vicine e sicure. Perché la sordità e l’apatica indifferenza del cardinale Ippolito sono l’eterna difesa che a Ferrara connota la disperazione del tranquillo italiano medio, il quale non vuole essere scomodato; la vita a Ferrara svela la nuda trama di cui è intessuta. Liceo, Casa Cini o Fgci, lavoro, fidanzamento, acquisto della casa, matrimonio, figli, pensionamento e morte. Le “liete voglie sante” che la natura biologicamente dona alle stirpi umane. E che nessuno venga a svegliare i morti che vivono, i quali ogni domenica allieteranno il desco delle paste alla crema o al cioccolato. E le loro anime, arrese alle paste, contente.
In questo modo nasce a Ferrara, la città emiliana così appartata dalle altre, così discreta e rassegnata, un paradigma di contrasto fra l’Essere e l’esserci, e la città acquista una prodigiosa modernità se aiuta a capire un problema molto più grande di quello del provincialismo. Roma, Milano, Firenze non hanno offerto tanta chiarezza: confondono i termini della condizione moderna – o postmoderna, come oggi si dice –, fanno ancora intravedere il Nulla che esse vivono e rivestono senza pietà, la fine dell’illusione che, almeno là, la vita viva. Ma se l’Essere là è avvilito e fugato, dove mai andremo a scoprirlo? Se davvero i grandi sono coloro che hanno musilianamente sostituito all’“Effetto della Grandezza la Grandezza dell’Effetto”, in quale silenzio andremo a cercare rifugio per la Parola?
La disperata dolcezza del vivere nella buia notte di Recanati, ritornato da Roma nel 1823, era per Giacomo conferma di quel che aveva già compreso prima di uscirne. Qui i valori sono custoditi dall’incallita aridità del cardinale Ippolito, qui può nascere ancora un’appassionata difesa della fantasia e del sogno davanti a un attacco così grossolano. Una dichiarazione di fede può nascere solo davanti a una persecuzione autentica, di fronte a un abbassamento onestamente scoperto della tensione morale dell’esistenza. Ferrara è tutto questo, perciò l’amo e non l’abbandonerò mai.
In nessuna città italiana dal nobile passato – e quale mai città d’Italia, non ha illustre passato? – è più evidente il contrasto fra l’antico e il moderno. Lo ripetiamo: Roma, Milano, Firenze confondono i termini del problema, ingannano su una possibile eternità della loro grandezza perché là si consumano i riti necessari alle Istituzioni deputate. Ma qui gli dèi sono fuggiti, rimangono solo le magnifiche pietre del Tre, del Quattro, del Cinquecento. Qui si vive coscienti, come Kavafis, che “la vita consumata in questo angolo discreto / la si è consumata in tutta la terra… e “non troverai altro luogo né altro mare / la città ti verrà dietro”. Ma è concesso di sognare, di continuare a combattere contro il mortificante realismo e la rassegnazione, e intanto strappare al mare qualche nuova provincia della fantasia, al riparo di nuove dighe metafisiche.
Ecco perché Ferrara ha potuto legare se stessa al mito della metafisica di De Chirico, Carrà e Morandi, gli artisti della gran città che riscoprivano, alla luce del pensiero nicciano e schopenhaueriano, in Ferrara un simbolo inquietante dell’uomo moderno. Qui, compiute le due o tre cose che assicurano il vivere quotidiano, rimane sempre e comunque tanto tempo da riempire. Gli orologi delle stazioni di De Chirico scoraggiano l’attesa proprio come le parole del cardinale Ippolito d’Este annullano l’aspettativa e il sogno della gloria: paiono dire che non c’è nulla da attendere, che non verrà nessuno, che la Storia, l’Evento salvifico ed escatologico, la Rivoluzione, l’Imperatore, il Veltro, Dio insomma non passerà più di qui, se pure mai è passato una volta. Resta nei cortili di Ferrara il lugubre singhiozzare delle tortore, lo stesso che dovette udire dal suo albergo ferrarese, il giovane Zar Pietro, di passaggio dalla nostra città, in uno degli ultimi anni del Seicento, e che non poté o non volle denunciare la propria presenza, firmandosi solo “il Re del Nord”.
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