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Pistoletto, Venere degli stracci, 1967
La parola mambo non designa solo un voluttuoso ritmo latinoamericano. È la sigla che dà nome al Museo di Arte Moderna di Bologna, uno dei più importanti in Italia per l’arte contemporanea. Ha sede in un grande edificio ex-industriale dell’Ottocento, ristrutturato dal Comune di Bologna con spazi ampi e luminosi. Espone in permanenza opere di autori italiani e stranieri e organizza rassegne periodiche di grande interesse. Tale è la mostra sull’Arte Povera italiana, in corso da settembre 2011 a gennaio 2012. L’Arte Povera è un movimento nato in Italia nel 1967-68, che fu così battezzato dal critico Germano Celant perché proponeva opere e installazioni realizzate con materie primordiali – pietre, legni, carboni, acqua, vegetali – spesso animate da elementari energie fisiche e chimiche (neon, gas, calamite, vapori, acidi) o talvolta addirittura da animali viventi, cavalli, uccelli. Il movimento si opponeva così alle immagini e agli oggetti di serie della Pop Art che si riferivano alla società “ricca” dei consumi di massa.
Bologna fu la città nella quale si tenne, nel gennaio del 1968, la prima mostra ufficiale dell’Arte Povera dopo gli esordi a Genova. Per questo la rassegna attuale nel MAMbo espone opere eseguite in quei primi anni dai 13 artisti che costituirono il gruppo. Alcune sono proprio quelle che apparvero nella collettiva del 1968 che ebbe luogo in una galleria privata, la galleria De’ Foscherari nel centro storico della città. Una delle opere esposte allora e che torna nel Museo s’intitola “1 metro cubo di terra”: è un cubo di legno rivestito di terriccio vero, sospeso a parete, un sogno di natura autentica, di terra mediterranea. Ne era autore un artista nato a Bari, Pino Pascali, che nello stesso anno fu consacrato dalla Biennale di Venezia vincendo il premio per la scultura, ma l’11 settembre (nello stesso giorno delle Twin Towers) morì tragicamente, in un incidente stradale a Roma. Aveva solo 33 anni, la sua fama è cresciuta nel tempo: l’anno scorso il moma di New York ha acquisito una sua opera per 2 milioni di dollari.
Negli Stati Uniti infatti molti degli artisti del movimento (che si sciolse presto, nel 1971) ottennero attenzione e successo, perché le loro esperienze trovarono riscontro nelle tendenze più avanzate dell’arte americana. Per questo tornano di attualità le sorprese e le emozioni, sensoriali e mentali, offerte dalla mostra di Bologna. Dodici sacchi traboccanti carbone, di Jannis Kounellis (greco di origine, vive da sempre a Roma). Una statua di Venere che affonda la sua bellezza greca in una montagna di stracci, di Michelangelo Pistoletto. Un igloo evocato con curvature di fasce metalliche da Mario Merz. La vasca da bagno che Gilberto Zorio immaginò di usare come barca. L’alto tronco di un albero di frassino sul quale Giuseppe Penone lasciò l’impronta della sua mano. Una lampada che doveva accendersi una volta all’anno, secondo Alighiero Boetti, altro artista scomparso precocemente (nel 1994, a 54 anni). Mentre un gruppo di bandiere avvolte confusamente attorno ad un’asta da Giulio Paolini avvertiva delle inquietudini che percorrevano la gioventù nel mondo occidentale, da Berkeley a Parigi a Roma. Era appunto l’anno passato alla storia col suo nome, il Sessantotto. Una storia che cerca oggi di ripetersi con il movimento degli indignados, da Madrid a Wall Street a Roma. Ecco che questa mostra di Bologna (prima di una serie di celebrazioni in diverse città d’Italia fra cui Bari, a dicembre) non è solo una rivisitazione storica. L’arte “povera” esprimeva allora il disagio nei confronti di una società troppo “ricca”. Oggi quelle opere precarie ci riportano a un bisogno di autenticità, di cose primarie concrete e vere, contro il mondo gonfiato della finanza di carta e di schermi.
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