Napoli. L’antica Vigna San Martino, sovrastata dalla
magnifica certosa trecentesca, è monumento
nazionale dal dicembre 2010
A Napoli, sul colle di San Martino, sotto la fascinosa Certosa medievale, vicina in linea d’aria al Museo di Hermann Nitsch, si stende per balze un terreno agricolo con vigneti, ulivi, asini, persino una serra di farfalle esotiche. Si chiama Vigna di San Martino appunto, ed è stata proclamata di recente Monumento Nazionale dallo Stato italiano. Lì vive Peppe Morra, l’affascinante personaggio animatore da oltre mezzo secolo della scena artistica meridionale. Ha messo su una Fondazione a suo nome, che organizza mostre ed eventi in un palazzo barocco sulla popolare piazza Dante. Fu lui che nel 1974 portò per la prima volta nel Sud d’Italia l’artista che a Vienna si era fatto conoscere per le sue conturbanti, sconcertanti Aktionen. Organizzarono insieme nel cuore antico di Napoli una specie di processione che si concluse con uno spettacolare rito sacrificale, tra corpi nudi e sangue di bue squartato. Fece scandalo ovviamente, tanto che intervenne la polizia e arrestò (per una sola notte) l’artista. Ma fra il napoletano e il viennese si stabilì una intesa che ha prodotto negli anni altre performances e mostre. Sino a realizzare il Museo nella ex centrale elettrica, nella quale pernotta il suo fondatore (ha ora 73 anni) quando scende a Napoli dal castello principesco alle porte di Vienna (Prinzendorf) in cui vive, immerso in una tenuta nella quale passeggiano i pavoni. Una minima“seconda casa” nella città intrisa di “miseria e nobiltà” (titolo della commedia di uno dei massimi cantori moderni della napoletanità, Eduardo De Filippo). La città in cui il Barocco si esalta, nei palazzi nelle chiese e nei sotterranei, di crocifissi piagati, di sfilate di teschi e di scheletri, di sai penitenziali, di statue di nobildonne morte che sembrano respirare sotto veli di marmo. L’unica città al mondo in cui ogni anno avviene un Miracolo del Sangue: lo scioglimento del sangue di san Gennaro nell’ampolla custodita nel Duomo. Un Barocco mediterraneo, certamente nutrito dalla lunga dominazione spagnola, ma che qui ha trovato la sua naturale terra di coltura. Napoli è “la morte vestita di colori” scrisse Bruno Barilli, grande autore quasi dimenticato del Novecento italiano. Questo lo aveva capito già molti secoli prima Michelangelo Merisi da Caravaggio, il “pittore maledetto”, quando nel 1606 si rifugiò nella città partenopea fuggendo da Roma dove aveva ferito a morte un rivale: qui le ombre e le luci nei quadri dipinti dal giovane disceso dalla Lombardia si fecero subito drammatiche.
Così, nel 2010 – l’anno in cui in Italia si è celebrato il quarto centenario della sua morte – Hermann Nitsch ha voluto tornare a Napoli per realizzare una performance rituale all’interno della cappella del Monte di Pietà, dove sta sull’altare la grandiosa pala del Caravaggio “Le sette opere di Misericordia”: sembra una scena di film girato proprio nei vicoli di Napoli, vi appare anche un cadavere che viene trasportato a braccia. Lì l’artista viennese ha reso omaggio al maestro italiano, portando nella cappella anche alcuni dei pannelli che stanno nel suo Museo. Quasi a riconoscere, a distanza di secoli, il legame segreto che unisce il suo teatro del corpo sacrificato nella civiltà di oggi alle radici antiche della natura, che da essa si è tradotta nell’antropologia culturale del cattolicesimo.
Oggi, quando si entra nel Museo Nitsch, prima ancora che lo sguardo corra ai sudari dipinti col sangue e alle ampolle di liquidi misteriosi, si imbatte in rasserenanti coppe di frutta e vasi di fiori. Quasi a rivelarci che nella luce del “pensiero meridiano” i turbamenti gotici di Oltralpe si sono distesi nella solenne malinconia con cui l’arte celebra a modo suo i riti senza fine della vita e della morte.
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