L’arte americana milionaria che spopola anche in Italia I superquotati artisti americani sono in mostra alla Biennale di Venezia (Bradford) e al MADRE di Napoli (Guyton). Tra collage e arte digitale, impegno civile e perfetta aderenza alla contemporaneità di Pietro Marino
Wade Guyton. Foto Karsten Moran for The New York Times
L’estate italiana dell’arte contemporanea ha visto salire alla ribalta due artisti americani di grande successo internazionale, ma coinvolti anche in storie e realtà del nostro Paese. Il primo è Mark Bradford, che rappresenta ufficialmente gli Stati Uniti nella Biennale di Venezia (in corso sino al 26 novembre). Afro-californiano di nascita, nato nel 1961 nei sobborghi poveri di Los Angeles e cresciuto (ora è alto due metri) da una madre parrucchiera, gay dichiarato, Bradford, che ora vive a New York, ha raggiunto quotazioni milionarie. Quasi 3 milioni di euro per il dipinto Biting the Book venduto all’asta nel 2015; 18 milioni di euro il suo fatturato (solo nelle aste) fra 2000 e 2015. La sua arte punta a evocare emozioni urbane e condizioni sociali, investendo con colori energici collages materici composti con frammenti, strappi e rifiuti di manifesti e riviste. Evoca il macrocosmo e il microcosmo, vedute aeree di città e cellule dell’Aids al microscopio, in chiave di nuovo espressionismo “astratto”. Ora ha investito il padiglione americano ai Giardini con installazioni informali fra pittura e scultura di forte impatto drammatico. Ma, coerente con le sue origini e la sua cultura di “pensatore liberale e progressivo” (così si definisce), ha segnato la presenza italiana con una iniziativa di carattere sociale. Ha promosso e finanziato l’apertura a Venezia di un piccolo negozio in Campo Santo Stefano gestito da una cooperativa di ex carcerati, “Rio Terà dei Pensieri”, che realizzano borse e accessori vari. Ha anche autorizzato l’edizione limitata di una bag con sua immagine autografata, “to make money” per loro. Il progetto “Process Collettivo” sarà sostenuto per sei anni dalla Fondazione che ha costituito col suo partner Allen Di Castro e la filantropa Eileen Harris Norton. Un impegno a favore degli emarginati per il quale fu ricevuto da Obama. Ora si dice spiazzato dall’avvento di Trump, lui che si sentiva orgoglioso di rappresentare il suo paese nel padiglione a Venezia – quasi una “Casa Bianca dell’arte”. Ma raccoglie la sfida: “Tomorrow is another Day” è il titolo della mostra, sulla scia mitica di Via col Vento.
Diversa la storia, ma con altri motivi d’interesse, di Wade Guyton (Hammond, Indiana, 1972) che ora tiene una personale nel MADRE, il Museo di arte contemporaneo di Napoli, sino all’11 settembre (data non casuale). Venuto dalla provincia profonda a New York, ha scalato rapidamente il successo del mercato milionario e le classifiche mondiali degli autori “su cui investire”. Si è imposto all’attenzione con una “pittura” che è fatta in realtà d’immagini digitali prelevate da computer, smartphone, scanner e quant’altro, e sottoposte a processi tipo photoshop. Le icone, ingrandite e stampate a getto d’inchiostro su tela o altri supporti, accettano anzi provocano errori, difetti, scarti nel montaggio. Iniziò con l’esaltare ingrandimenti di particolari – anche singole lettere – sino a raggiungere effetti da minimal art. All’operazione astratta si è mescolato l’inserimento di parti di giornali o notiziari on-line, in modo da ibridare la composizione con flussi iconici di cronaca e di pubblicità. Operazione sulla scia fra il concettuale e il pop (“ voglio dipingere come una macchina ”annunciava Warhol) che a Napoli si è immersa anche fisicamente nel contesto reale. Infatti Guyton ha portato in città tutto il suo team per realizzare sul posto i “quadri” giganti: riprendendo la home page della edizione on-line del quotidiano Il Mattino con eventi locali oppure recuperando immagini casuali di un piatto di pesce, una porta, delle sedie da catalogo, un codice di riconoscimento. Ne ha ottenuto ingrandimenti di particolari quasi geometrici, quasi metafisici, marcati dal taglio o scarto fra due parti della stampa. Realizzata o simulata sul posto: perché tutto il terzo piano del Museo è trasformato nel suo laboratorio, con macchinari, casse da trasporto, rotoli e tavole di stampa a vista. Quasi una pittura mediale a chilometri zero, un take away della vita al taglio. Trasferita a tranci nel frigorifero delle icone del nostro tempo 2.0. Lo conferma il titolo della mostra, in italiano: “Siamo arrivati”. Come annunciava McDonald all’apertura dei suoi locali a Napoli.
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