- FEBBRAIO 2018 -
Cultura
Quell’assedio del Sergente Romano
come in un film
Briganti e piemontesi a Gioia del Colle dopo l’annessione sabauda (1861) nell’ultimo romanzo di Marco Cardetta. Le pagine del giovane scrittore pugliese intrise di emozione evocativa e istinto teatrale di Sergio D’Amaro
Sergente Romano di Marco Cardetta (LiberAria, pp. 170, € 12) sembrerebbe essere a prima vista l’ennesima prova narrativa ispirata all’epopea del brigantaggio postunitario. Il tema è irresistibile, per la verità, e risulta l’equivalente che uno scrittore americano avrebbe a disposizione per raccontare il suo bravo west condito di una sanguinosa guerra civile, esattamente coincidente come tempo (1861-1865) coi fatti italiani seguiti all’annessione sabauda. D’altro canto, è oggettivamente difficile per un autore per di più pugliese misurarsi col successo del romanzo di Raffaele Nigro, I fuochi del Basento, che ebbe il premio Campiello nel 1987 e che oggi è indicato come testa di serie per chi voglia cimentarsi con tale tematica.
Cardetta, però, è riuscito a scegliersi un suo particolare spazio e a ritagliarsi un ben individuato periodo del brigantaggio, privilegiando i due mesi (giugno e luglio 1861) che toccarono in sorte alla cittadina di Gioia del Colle assediata dalla banda del Sergente Romano, al secolo Pasquale Domenico Romano, un ex ufficiale dell’esercito borbonico fedele all’ultimo re di Napoli Francesco II (alias Franceschiello) e determinato a sbarazzarsi delle bandiere piemontesi. Lo spazio del giovane Cardetta è animato dal suo istinto teatrale e performativo, visto che le sue attività si estendono al cinema e alla musica, risultando poi questa sua poliedricità opportuna per calarsi letteralmente in quella particolare vicenda ed estrarne voci e immagini di un vivo palcoscenico.
Assistiamo così, anche grazie al controcanto parallelo di documenti d’epoca che sfilano in coda a ciascun capitolo, alle concitate settimane che precedono l’assedio della banda del Sergente Romano. L’autore diventa letteralmente reporter, registra i dialoghi, le emozioni, le imprecazioni, i gesti di questi inediti fratelli d’anima di Billy the Kid e di Jessie James, chiusi nella loro scelta violenta e disperata, pronti ad ogni atrocità, lontani dalla luce di qualunque pietà. Le battute dei personaggi sono aspre, taglienti, scabre come il paesaggio in cui vivono, e la loro lingua si contorce in un dialetto espressionistico talmente teso da spezzare ogni diplomazia comunicativa.
Cardetta, impegnandosi come cantore popolare, srotola giorno dopo giorno le scene del dramma, immedesimandosi in quella vicenda senza tregua e cogliendo nelle sue creature così resuscitate la residua energia per gridare una loro pur stremata dignità. Non c’è intento celebrativo o assolutorio, non ci sono tentazioni neoborboniche: c’è solo emozione evocativa, riflessione antropologica. Né manca il guizzo dell’attore, anzi del regista, se molto (auto-) ironicamente in appendice scherza col lettore e con l’editore, sgomento per tanta audacia di idee e di scrittura. È che il Sergente Romano, morto a trent’anni nel 1863, riassume senz’altro la figura del vinto, e Cardetta ne resta affascinato per quel suo alone di fatale incarnazione di eroe di una causa persa in partenza. Un racconto così può fare anche a meno di dorature da letteratura retorica.
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