Ben 12 le nomination agli Academy Awards 2016, tra cui quella per miglior regia: per Inarritu è la seconda volta di seguito di Giovanni De Benedictis
The Revenant, con Leonardo DiCaprio
Nordamerica, 1823. Il cacciatore-esploratore Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) mette in salvo il manipolo di pellai per cui lavora dall’attacco della tribù degli Arikara. L’unica via relativamente sicura per tornare al campo base è quella terrestre. In testa al gruppo, alla ricerca della strada giusta, Glass s’imbatte in una femmina di grizzly con piccoli al seguito: attaccato alle spalle, viene gravemente ferito e ridotto in fin di vita. La compagnia non può attendere. Il capitano incarica due dei suoi di assisterlo per quel poco che gli resta e dargli degna sepoltura. Peccato che uno sia John Fitzgerald (Tom Hardy), ex soldato violento e razzista, intenzionato soltanto a intascare i soldi promessi per questo incarico supplementare. Ovviamente Glass verrà abbandonato al suo destino.
È una storia di morte, rinascita, sopravvivenza e vendetta quella tratta dall’omonimo romanzo di Michael Punke e ispirata al trapper realmente esistito, figura però di consistenza più leggendaria che storica.
Scritta dal regista e da Mark L. Smith, la sceneggiatura costringe lo spettatore ad abbassare la soglia di sospensione dell’incredulità in un paio di occasioni e si concede dei flashback apparentemente poetici, che nei migliori casi arricchiscono il retroterra del protagonista, nei peggiori abbassano il ritmo. In essi i richiami a Malick sono solo apparenti: qui non si tesse un elogio della natura vivente per immagini (tutto è ostile quanto i nemici umani). Ma il respiro della trama è ampio e l’epicità dei fatti è amplificata dalla bravura di Alejadro G. Inarritu, che coadiuvato dall’eccezionale operatore Emmanuel Lubezki (2 Oscar), muove la macchina da presa così da rimpicciolire la figura umana tra i paesaggi o da starle incollata (con evidenti grandangoli) fino a ‘soffocarla’ nell’inquadratura insieme allo spettatore. Il tutto è servito in coinvolgenti piani sequenza (l’incipit sembra uscito da un Salvate il soldato Ryan di frontiera) o in frangenti che sanno quasi di real tv. Le musiche di Sakamoto – ansiogene, minimaliste ed evocative – fanno il resto. Al netto, potrebbe quasi essere un nobile parente della Passione di Cristo o Apocalypto di Mel Gibson, girato però come se fosse un Gravity “into the wild”: l’imperativo è sopravvivere.
Girato in buona parte in Canada in condizioni proibitive (fino a -40°), costato 135 milioni di dollari, non privo di riferimenti a western più o meno recenti (tra cui Uomo bianco, va’ col tuo dio! con Richard Harris, basato sulla stessa vicenda), The Revenant vive di vita propria grazie al taglio postmoderno della regia. La sola scena dell’attacco dell’orso divora tutta la computer grafica vista in sala nel 2015.
Dopo essere stato abbondantemente preso in giro per l’Oscar non vinto per The Wolf Of Wall Street (in cui lui era eccessivo persino rispetto alla storia) Leonardo DiCaprio porta a casa il Golden Globe come miglior attore drammatico e punta alla statuetta: da vegetariano, ha persino dovuto mangiare fegato crudo di bisonte. Talvolta Tom Hardy gli ruba la scena, anche se il suo personaggio è di una cattiveria monocorde qua e là irritante. Domnhall Gleeson aggiunge un altro titolo di peso alla sua già rispettabile filmografia.
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