Opere che sollecitano emozioni e smarrimenti di sensi di Pietro Marino
Milano. Hangar Bicocca. Joan Jonas “Light Time Tales”
Il mondo visionario di una grande artista americana, Joan Jonas, si dispiega per la prima volta in Italia con tutta la sua ampiezza e complessità con una mostra antologica a Milano, negli immensi spazi dell’Hangar Pirelli alla Bicocca, aperta sino a febbraio del 2015. E da maggio dell’anno prossimo sarà lei a rappresentare gli Stati Uniti nella Biennale di Venezia. Giusto riconoscimento per la 78enne pioniera – sin dai Sessanta – di un’arte in cui esperienze performative e narrative fra vita personale e storia collettiva, metamorfosi dell’immaginario tra città e natura, si danno con film e video, installazioni e “teatro da camera”, parole e scrittura.
Del resto Joan Jonas è “professore emerito” presso il MIT di Boston, a conferma della trama concettuale sottesa ad opere che sollecitano emozioni e smarrimenti di sensi. Già dalla sua prima azione filmata in incerto e muto bianconero nel 1968, Wind: un gruppetto di “attori” con vesti lunghe ricoperte da specchi tentano di inscenare una specie di danza rituale sulla spiaggia innevata di Long Island mentre i loro passi e gesti sono ostacolati da un vento che spira fortissimo dall’Oceano. Era il tempo in cui l’arte a New York praticava tutte le contaminazioni fra i generi e i linguaggi. Usciva dagli studi e dai teatri, s’inoltrava – disse Rauschenberg – nella terra di nessuno che la separava dalla vita, danzava sui tetti con Trisha Brown, suonava il silenzio con John Cage. E Joan Jonas disegnava cerchi di gesso, tendeva pali, allungava coni come trombe, muoveva specchi, provava distanze tra visioni e suoni.
Poi dagli spazi anonimi della città è andata sempre più vagando per il mondo. In terre lontane dove respirano elementi primari della natura – il vento e l’acqua, la neve e i vulcani, la roccia e la sabbia. E dove alle storie anche politiche del presente si sovrappone la forza mitica di saghe leggende e riti: Nuova Scozia, Islanda, Irlanda, antico Giappone, ma anche l’Egitto trovato a Las Vegas…
“Light Time Tales”, racconti di un tempo di luce, è il titolo della mostra curata da Andrea Lissoni che propone una ventina di installazioni multimediali, con suggestioni oniriche. Ne sono protagonisti attori come Tilda Swinton, danzatori, cantanti, e animali finti (“la scimmia la volpe il coniglio”) e veri (i suoi amati cani). Oltre gli schermi sono sparsi frammenti oggettuali, un coyote impagliato, apparati conici, una chaiselongue, lavagne e pareti dove gessetti bianchi disegnano sia farfalle che cancellazioni.
Arduo cogliere il senso unitario del mondo di Joan Jonas, labile e umbratile. Una grande installazione 2005 rivela il suo debito con Aby Warburg, il geniale e un po’ folle fondatore tedesco dell’iconologia, il quale sosteneva che miti archetipici ricorrono – sempre reinventati – nelle culture di ogni tempo e spazio. Come il “Rituale del Serpente” che Warburg studiò nei primi del ’900 fra gli indiani hopi del New Mexico. Un viaggio che Joan Jonas ha ripercorso, anche sul filo di una malinconia che da Durer risale sino a Nietzsche. La lunga narrazione fuori campo che commenta l’opera Lines in the Sand (2002) si conclude così: “Vedo il pietoso cumulo di piccole cose, la montagna di mostruosi arnesi. Poi entrambi svaniscono. Non c’è niente, niente di niente. Ho visto il mondo attraverso la mia doppia lente. Sembrava che si fosse rotto tutto tranne quella”.
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