L’epicentro dell’arte è ancora New York In mostra opere fantasiose e kitsch che confermano la cultura postmoderna del simulacro. E il primato immutato della Grande Mela per la trasformazione dell’arte in un’industria di livello mondiale di Pietro Marino
Roma. “Empire State. Arte a New York oggi”. Rob Pruitt
S’intitola “Empire State” una ampia mostra nel Palazzo delle Esposizioni in Roma (fino al 21 luglio 2013). Intende rappresentare con 20 autori “l’arte a New York oggi”. È esplicito il riferimento allo storico appellativo della New York City, coniato orgogliosamente ai tempi di George Washington. Ma vale ancora questo primato, almeno in arte? È il tema impegnativo del progetto nato dal singolare incontro fra l’anziano e autorevole critico inglese Norman Rosenthal e un rampante curatore newyorchese, Alex Gartenfeld, 26 anni. New York è stata faro dell’arte mondiale dal dopoguerra sino agli anni Ottanta. Ma da allora ad oggi – riconosce “sir” Norman – “una vera e propria esplosione artistica si è diffusa in tutto il pianeta”. Effetto della “nuvola informatica” planetaria ma anche di nuovi protagonismi sia dall’Europa sia dall’Estremo Oriente. Tuttavia si è accelerata la “trasformazione dell’arte in un’industria di livello mondiale” e New York è l’epicentro di questo fenomeno. Per questo rimane il cuore del mercato internazionale dell’arte e continua ad essere melting pot attrattivo per gli artisti. Anzi si è trasformata in “città spettacolo”, sostiene Tom McDonough in uno dei testi in catalogo, citando La società dello spettacolo di Guy Debord (1967). Ne è segno la “gentrificazione” dei quartieri popolari della città da parte di una borghesia in cerca dell’autenticità perduta. Con un effetto paradossale: “Cacciando via i poveri, le automobili e gli immigrati, facendo ordine, eliminando i germi, la piccola borghesia annienta esattamente ciò che è venuta a cercare”.
Così l’autenticità del passato e del vissuto si trasforma in feticcio e simulacro – il Kitsch, in sostanza. È evidente la ricaduta in molte delle esperienze presentate a Roma. Del resto l’identificazione dell’opera d’arte come merce ebbe proprio a New York il suo lucido profeta, Andy Warhol. Eredità raccolta ironicamente da Jeff Koons contaminando classicità e banalità: come la “scultura” di Venere in acciaio lucidato in verde che sta in mostra con un vaso di fiori accanto. Rincorre la spettacolarità ludica degli Ottanta Rob Pruitt, contrapponendo un gigantesco stegosauro in fiberglass nero ad una parete di “quadri” iperrealisti. Un pastiche visionario è il “ciborio” di Keith Edmier che s’innalza nella rotonda. La sua struttura in acciaio vuole citare la vecchia Penn Station demolita nel 1963 e insieme la struttura a cupola del Pantheon romano.
Con maggiore finezza di concetto e di gesto, un artistar come Julian Schnabel sovrappone imperiosi arabeschi pittorici a ingrandimenti fotografici di pannelli ottocenteschi che raffigurano una vittoriosa battaglia indipendentista di George Washington. Joyce Pensato evoca Paperino e altri eroi dei fumetti con pittura energica e drammatica in bianco e nero, tipo action painting. All’opposto, Wade Guyton cita il gigantismo della pittura minimal producendo con stampante a getto d’inchiostro 15 metri di strisce orizzontali verdi e rosse su teli di lino.
Ben pochi si sottraggono alla cultura postmoderna del simulacro. C’è più esperienza viva della scena urbana nelle strutture trasparenti del grande Dan Graham, che moltiplicano e intrecciano percezioni spaziali. Traspare New York come anima di un mondo al tempo della crisi, nel video Les Goddesses di Moyra Davey: si aggira con la telecamera nella sua stanza in un grattacielo che lascia indovinare la vita che si svolge fuori, mentre scorrono storie sue, di Goethe, di Freud, di Fassbinder che lei dice con voce che tentenna e sbaglia. E Adrian Piper, esponente storica del concettualismo analitico ci lascia con quattro grandi lavagne sulle quali ha scritto a mano 25 volte, col gesso di scuola, la frase “Tutto sarà portato via”. Minaccia o promessa, profezia o desiderio?
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