Al MADRE il vitalismo magico di Jimmie Durham Artista di fama internazionale, Durham, americano d’origini cherokee, non rinnega la sua etnia ma non ama essere etichettato come “nativo”.
Anche tronchi d’ulivi secolari della Puglia tra le sue opere di Pietro Marino
Un’immagine di “Wood Stone and
Friends”, la mostra di Jimmie Durham
al MADRE di Napoli
Due possenti radici di secolari alberi di ulivo abbandonate nelle campagne della Puglia troneggiano ora come sculture primitive nel Palazzo Reale di Napoli. Fanno parte della mostra di opere nuove, composte con legni di ulivi pugliesi, con tronchi di noce del Molise e con pezzi di lava del Vesuvio, da Jimmie Durham, artista nativo americano di fama internazionale. Durham, che vive in Italia da molti anni (a Roma, da gennaio a Napoli) è nato in Arkansas 72 anni fa in una tribù cherokee. Però non vuole o non vuole più che si scriva: non perché rinneghi le sue origini o perché sia in rotta con la sua gente. Anzi, da giovane, negli anni Settanta, fu un esponente dell’AIM, l’American Indian Movement, e ne fu rappresentante a lungo presso le Nazioni Unite a New York. Ma teme (giustamente) che il suo lavoro di artista, poeta, scrittore, sia racchiuso in schemi e relegato nei ghetti del folclorico e dell’etnico, quasi fenomeno d’attrazione per turisti occidentali, come spesso accade nelle superstiti riserve di pellerossa. “Io voglio essere un intellettuale; e mi accade di essere un cherokee… ma questo non significa che sia una specie diversa di intellettuale”, ha commentato una volta con ironia amara.
“Esule nella propria terra” ha vissuto in giro per il mondo, negli Ottanta in Messico – da dove viene la moglie Theresa Alves anche lei artista affermata – e poi in Europa, a Bruxelles, Marsiglia, Berlino, sino alla discesa definitiva nel Sud d’Italia. Dovunque – anche nelle grandi mostre internazionali a cui ha partecipato – ha proposto una idea di arte non monumentale, non celebrativa, “povera”. Arte come esperienza di conoscenza che interroga i luoghi che incontra, raccoglie i frammenti della loro natura, della loro storia e dell’uso quotidiano e li assembla in forme precarie ma dalle quali si sprigiona, con poesia ed ironia, un vitalismo magico. Qualcuno ha parlato di totem, altra definizione che Durham respinge per le stesse ragioni e gli stessi sospetti. Non ci sono metafore né stregonerie nella sua arte, che è per lui solo “una parte del processo del pensiero dell’umanità”.
È quel che accade a Napoli: fra le solenni colonne doriche del salone che fu scuderia della Reggia dei Borboni si dispongono i relitti di ulivo da lui raccolti l’estate scorsa dalle parti di Ostuni dove c’è una masseria di Maurizio Morra Greco, il collezionista napoletano che con la sua Fondazione ha organizzato la mostra in collaborazione con il MADRE, il Museo regionale d’arte contemporanea di Napoli. Le “sculture” si innalzano come personaggi-alberi su vecchi treppiedi, tavolini, portavasi recuperati dai rigattieri di Napoli con bracci esili, slanci di rami torniti, articolazioni serrate da ganci metallici o morsetti da fabbro. “Wood Stone and Friends” s’intitola questa specie di “foresta” – la definisce l’artista quasi ricordando le foreste che fanno parte dell’immaginario della sua infanzia. Le foreste che lasciò per vivere, come un “selvaggio postmoderno” nella civiltà metropolitana. A Roma, in un’altra sua personale aperta nel MACRO, il Museo comunale di arte contemporanea, campeggia un arco di metallo povero su una pedana con ruote. Ci si può passare sotto: è un “monumento portatile”, l’Arco di Trionfo per la gente comune, per ciascuno di noi.
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