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Cultura
“American Dreamers”
Il nuovo sogno di undici artisti americani in mostra a Firenze
Incubi, inquietudini e fantasie nostalgiche: c’è più fuga dalla realtà che non progetto di benessere e libertà nell’arte under 40 del difficile decennio post 11 settembre di Pietro Marino
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Thomas Doyle. Acceptable. 2008. Dettaglio

      “American Dreamers” è il titolo di una collettiva che presenta a Firenze (fino al 15 luglio 2012) 11 artisti di recente generazione (fra i 30 e i 40 anni) nella Strozzina. Si chiama così lo spazio per l’arte contemporanea aperto nei sotterranei del prestigioso Palazzo Strozzi, dove è in corso la mostra “Americani a Firenze” sugli artisti che da oltre Oceano calarono in Toscana tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento inseguendo il sogno italiano di bellezza dell’arte e della natura. Ma l’American Dream degli artisti di oggi non è quello che ha ispirato e motivato la crescita degli Stati Uniti sin dalla loro fondazione, il progetto collettivo di una società proiettata verso un futuro di progresso, di benessere e di libertà, forte del suo “diritto alla felicità”. È proprio il sogno come evasione dalla realtà, proiezione onirica di desideri e di paure individuali, o metafora del ripiegamento su pratiche di vita smarrite, come la vita a contatto della natura, i lavori domestici e della mano femminile, i piaceri ingenui dei sensi… In generale, una “tendenza al ritiro verso il privato o alla reinvenzione del rapporto tra individuo e comunità”, osserva Franziska Neri, curatrice della mostra e direttrice del Centro “La Strozzina”.

      Così, fantasie vaganti e contrastanti compongono il variegato percorso della rassegna fiorentina. Thomas Doyle mette graziosi modellini delle tipiche villette unifamiliari d’America dentro sfere trasparenti come bolle di sapone. Ma le case sporgono sull’orlo di un precipizio o sono sospese su profonde voragini. Villette simili sono dipinte dentro limpidi paesaggi di rassicurante serenità rurale da Adam Cvijanovic; ma sono pannelli di tessuto leggero, smontabili e trasportabili come scenari della finzione per teatri poveri. Patrick Jacobs fa spiare da piccoli oblò incantevoli paesaggi in miniatura tridimensionale con fiori, funghi e praterie: sembrano a portata di mano, ma sono inaccessibili. Christy Rupp presenta scheletri di grandi uccelli preistorici estinti, ma sono fatti con ossi e cartilagini di polli e tacchini recuperati dagli scarti di fast food e barbecue.

      A simili incubi o inquietudini si contrappone la fantasia nostalgica di Will Cotton, che dipinge eroine del pop come modelle nude distese su nuvole di bambagia rosa come nei frivoli quadri rococò di Fragonard, e paesaggi fatti di zucchero filato, confetti e caramelle. Fluttuano invece nell’aria notturna e nell’acqua come fantasmi in veli della seduzione le belle donne fotografate in c-print da Adrien Boom. Con carte pergamene trasparenti dai mille colori Kirsten Hasserfeld costruisce lampadari stellari, diamanti luminosi, addobbi che sanno di Natale e di Mille e una Notte. Foreste incantate con esuberanze di vegetazione tropicale e favolistica, “regni celesti” con soli, lune e stelle sono evocati da Mandy Greer intrecciando cascami di fibre colorate, lane all’uncinetto, bottoni e perline.

      Il più visionario di tutti è Nick Cave, protagonista da Chicago del Fashion Design. A Firenze è esposta una serie spettacolare dei suoi Soundsuits (Abiti Sonori): manichini di personaggi con strumenti musicali, interamente ricoperti da “costumi” fatti con i materiali più disparati, pellicce sintetiche, coperte patchwork, capelli, tappi di bottiglie e quant’altro. Diventano così fantasmi colorati e grotteschi, con memoria di Carnevali sudamericani o di New Orleans. Al capo opposto, i quadri a tinte nette e contorni grafici in stilizzato post-pop e le fredde sagome ritagliate di Richard Deon. Ha inventato un personaggio solitario, “il Soggetto” (“The Subject”), di solito perdente, evocato in situazioni surreali di abbandono o di deserto urbano.

      Non è facile stabilire quale peso hanno, nel loro complesso, queste diverse esperienze nel contrastato panorama dell’arte contemporanea americana. Certamente sono un sintomo di disagio. Una “via di fuga dal caos e dall’indifferenza che vedono nel mondo circostante”, sostiene Barthomew F. Bland. E questo, in un tempo preciso degli States, “l’età dell’incertezza” che sembra essersi aperta dopo due crolli, quelli del Muro di Berlino e delle Twin Towers. Ma c’è un rimedio, una risposta? In catalogo è riportato un articolo apparso su The Nation il 10 ottobre 2011, che riferiva della nascita a Washington di un American Dream Movement al grido, appunto, “Take Back the American Dream”. È seguito, subito dopo, il movimento “Occupy Wall Street”, nello Zuccotti Park di New York. Ma quali chances ha questa sfida di cittadini che vogliono “riprendersi il sogno americano”, di affermarsi nel contrastato tempo di Barack Obama alla Casa Bianca? Se lo chiedono in chiusura di catalogo (in italiano e in inglese) Robert Borosage e Katrina Vanden Heuvel. Ma all’arte, si sa, non compete dare risposte ma fare domande. E sognare, talvolta.

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