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Cultura
Ne La dolce vita di Fellini
i germi dell’Italia di oggi
C’è un rapporto strettissimo, quasi simbiotico, tra cinema e realtà. Se ne parla anche nell’ultimo saggio di Oscar Iarussi, C’era una volta il futuro, l’Italia della Dolce Vita, in cui il critico cinematografico pugliese individua nell’Italia felliniana degli anni Sessanta una profetica visione del futuro di Enrica Simonetti
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Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena de La Dolce Vita (1960)

       Un autentico maestro del cinema come Jean-Luc Godard lo aveva capito da tempo: diceva che il film “è verità ventiquattro volte al secondo”. Una realtà parallela, un mondo che stranamente non è solo simile ma addirittura identico al nostro perché immerso nella nostra vita, calato con un “ciak” nel nostro modo di essere società. Si fatica a crederlo, pensando alla nostra idea di cinema, quella delle mille finzioni, con le scenografie capaci di trasformare un paesaggio, di sradicare un contesto, di illudere e far sognare. Ma se riflettiamo con attenzione, ci accorgiamo che un film può essere molto più vicino alla realtà di quanto lo siano una fotografia, un dipinto o un romanzo. Perché in queste forme d’arte la costruzione scenica è meno evidente, ma solo per quanto riguarda le apparenze.  

       Non perde la sua atmosfera sognante il cinema del reale. Anzi, è sempre più intriso di noi che stiamo lì immobili a guardare ma invece inconsapevolmente partecipiamo, perché siamo un po’ nel film. Lo siamo persino nella fantascienza, che sembrerebbe una dimensione lontana ma che in realtà non fa che confrontare l’alieno con l’uomo, così pesantemente che lo stesso marziano ET è ricordato per la sua voglia di “telefono-casa”. Il sentimento, l’umanizzazione dei personaggi fa tendere il cinema verso il reale. In ogni epoca: da Via col vento (1939), a Tutti insieme appassionatamente (1965), fino a Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) – tanto per citare alcuni premi Oscar – c’è tanta società in pellicola. Il nostro romanticismo, le nostre paure, gli anni Sessanta, l’incubo dei manicomi: tutto ciò che siamo finisce prima o poi nella pentola del grande schermo, che quasi diventa uno specchio di noi stessi. A volte, raccontando in modo veritiero e verosimile il passato – come il Noi credevamo di Martone, che ci ha fatto riflettere sul Risorgimento – e a volte insistendo sull’attualità: dai tanti film che ripercorrono l’odissea dei migranti di oggi a quelli in stile “docu” di Michael Moore sull’America contemporanea.

      Ma se volessimo analizzare le pellicole storiche o dense di cronaca dei nostri tempi l’elenco sarebbe lungo. C’è invece un tipo di film su cui vale la pena soffermarsi, perché senza raccontare la grande storia o la vera attualità, è diventato profetico e si sa che la capacità di divinazione non è tanto diffusa al mondo! Un autore come Federico Fellini entra in questa gloriosa schiera e potremmo considerarlo un “mago” non solo per l’indiscusso valore dei suoi film, ma anche per quello che ci ha messo dentro, per il suo aver indagato più o meno consapevolmente il futuro. Ad accorgersi di questa dote straordinaria e a parlarne in un libro interessante, dal titolo Cera una volta il futuro. LItalia della Dolce Vita (edito da Il Mulino), è Oscar Iarussi, critico cinematografico, responsabile delle pagine di Cultura e Spettacoli della Gazzetta del Mezzogiorno e docente di Storia del cinema americano all’Università di Bari. Il suo saggio affronta una tesi e la dimostra con argute deduzioni: Fellini, nella sua celebrazione di un’Italia anni Sessanta in preda alla Dolce Vita, ha parlato anche dell’Italia di oggi. L’euforico e disordinato profilo di un Paese da miracolo economico (ancora pieno di tic e di zone d’ombra) è anche il ritratto di noi stessi, figli di quel tempo, allo stesso modo divisi tra entusiasmo e depressione. Il Paese che Fellini dipingeva viveva una grande fame di futuro, come del resto accade anche da noi, con i ragazzi di mezzo mondo che vorrebbero “occupare il futuro” e si accontentano di fermarsi a dormire nelle piazze delle banche. Una società un po’ fellininana – dimostra Iarussi – siamo quindi anche noi oggi, che avanziamo incerti, sentendoci “vitelloni” ma allo stesso tempo frenati dai lacci, in bilico sul mito, intrisi di quel passato che così abilmente Fellini aveva tratteggiato.

      Una Dolce Vita continua, in una nazione che si eccita con le varie “Anita Ekberg” di turno, restando – scrive Iarussi – “allucinata e visionaria, tuttavia miope e strabica, se non proprio cieca”. Una caratteristica che l’autore definisce “ciclotimia italiana, l’alternanza umorale colta nell’affresco felliniano che presagisce uno spleen ancora lungi dal manifestarsi nel tessuto sociale”. Da questo raffronto di epoche e di sensazioni nasce nel saggio il tentativo di comprendere il nostro mondo, rassegnato e stanco, appagato da quella Dolce Vita patinata che sembra inserirsi nelle famiglie, nonostante la crisi, nonostante i crolli di un sistema invecchiato. Ed ecco il “Real Italy Show”, ecco il cinema che senza accorgersene dipinge la realtà di ieri e di oggi, con l’affaccio sul Grande Nulla, con l’assenza di certezza e la voglia di crogiolarsi nel benessere (che c’è o che non c’è).

      L’illusione cinematografica di Fellini diventa previsione meteo-patica del nostro essere nel Terzo Millennio degli indecisi. Pochi autori hanno saputo essere così previdenti e il saggio di Iarussi insiste su questo raffronto inedito tra gli anni Sessanta e i nostri giorni, spiegando quel “film del moderno” che è il nostro vivere, tanti decenni dopo. Senza dimenticare il giornalismo, che con il cinema racconta l’attualità: che dire delle paparazzate dell’era felliniana, di cui ci nutriamo ancora oggi? E dello strapotere della didascalia e dell’immagine che oggi come ieri ammalia gran parte della carta stampata, del web... per non parlare della tv, mito della emozione “fredda” di cui parlava McLuhan (e oggi potremmo aggiungere anche che il piccolo schermo è la Casa delle passioni tristi). Nel 2013 ricorrono i vent’anni dalla scomparsa di Federico Fellini, ma la sua opera – come si vede – non perde smalto, perché il reale di cui lui ci ha parlato è sempre rimasto tra noi, e non solo nel nostro immaginario.

      È questa la magia del cinema, quel riuscire a sorprendere anche molto tempo dopo di un “ciak”, anche dopo che la macchina da presa è spenta. Negli Usa, ma ora anche in Italia, c’è una nuova terapia che si diffonde, la cine-therapy: ossia il film considerato come metodo di analisi psicanalitica. Scorrendo i titoli utilizzati nelle sedute, non è raro trovare vecchi e bellissimi film come La vita è una cosa meravigliosa, di Frank Capra, un autentico generatore di autostima, spiegano gli esperti. E c’è chi ci crede, oltre che addirittura chi spiega di aver tratto beneficio da questa nuova applicazione della passione universale per il cinema. Quanto potere in una pellicola: aveva ragione Fellini e forse non esagerava quando diceva che “il cinema è il modo più diretto per entrare in competizione con Dio”.

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