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“Dell’Italia mi piace l’eleganza e la rilassatezza, dell’America il pragmatismo e l’energia”.
“Senza mia moglie non avrei costruito nulla” di Flavia Pankiewicz
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Roma, “Festival Internazionale del Film” 2008. Al Pacino, una delle leggende del cinema mondiale, abbraccia Antonio Monda
Star del cinema e scrittori di fama internazionale frequentano la sua casa a frotte dando vita a quello che il New York Times, in un lunghissimo articolo che gli ha dedicato di recente, ha definito il più vivace e forse l’ultimo salotto culturale di New York. Sulla stampa italiana se ne è parlato come uno dei dieci italiani più potenti d’America. Ma Antonio Monda, scrittore, giornalista, docente di cinema presso la New York University, organizzatore di grandi eventi culturali e anche interprete di qualche cammeo in alcuni film, non sembra emozionato più di tanto dalla notorietà. Ama la semplicità, veste quasi sempre casual e tratta con la stessa, calorosa affabilità amici famosi e persone comuni. Nato da una famiglia di origini calabresi e trasferitosi quasi vent’anni fa negli Stati Uniti, a New York, ha saputo costruirsi una solida carriera con professionalità e impegno, complice quel motto di Winston Churchill che capeggia nel suo ufficio alla NYU: “Never, never, never quit” (Non mollare mai, mai, mai). Una splendida moglie, la jamaicana Jacqueline Greaves, lo sostiene in tutto quello che fa; le sue ricette di cucina, un ibrido di tradizione italiana e tocchi di Jamaica (che saranno presto in un libro) hanno avuto il loro peso nel successo di pranzi e cene casalinghi. Tre figli brillanti e capaci di sana ironia nei confronti dei successi del padre, le gemelle Caterina e Marilù, di 21 anni, e il diciassettenne Ignazio, completano il quadro di un sogno americano (e italiano) pienamente realizzato.
Il giornalista Oscar Iarussi ha definito Monda “un punto di riferimento per occasioni di scambio tra la cultura italiana e quella anglosassone (non solo USA), erede di un ruolo cruciale che nel corso del tempo è stato rivestito da Vittorini, Cecchi, Soldati, Pivano, Furio Colombo”. Il suo plus è la capacità di rendere ogni incontro culturale un vero evento, cioè la capacità di divulgare la cultura, di renderla attraente. Le sue “Conversazioni”, a Capri come a New York, o le sue interviste al Festival del Cinema Italiano al Lincoln Center di New York sono eventi sempre affollati da un pubblico appassionato.
Qualche mese fa il quotidiano più prestigioso del mondo ti ha dedicato un ampio articolo, con grande eco in Italia. Celebrities del mondo del cinema e della cultura affollano il tuo salotto. Qual è il segreto del tuo successo?
Non ho segreti, so solo che sono stato educato a condividere le idee e ad accogliere. In questo mi ritengo molto meridionale.
Qual è il ruolo di tua moglie, Jacquie, in tutto questo? E i tuoi figli come vivono la tua notorietà?
Jacquie è la principale artefice di tutto ciò: senza lei non avrei costruito nulla. I figli ci prendono sanamente in giro.
Docente universitario, scrittore, giornalista, organizzatore di eventi culturali. In quale di questi ruoli ti identifichi maggiormente?
Tutte queste attività sono simili: cerco di comunicare alcune idee, e lo faccio con i libri, i film, le lezioni, le mostre e i festival.
Il tuo ultimo libro, Nella città nuda (Rizzoli), è nato nella metropolitana di New York, osservando la gente e scattando fotografie…
È nato quasi per caso, passo molto tempo in metropolitana. Poi molti amici mi hanno sollecitato ad organizzare una mostra con le foto. Da quella prima suggestione è nata quella di scrivere un libro e poi è venuta l’idea delle 50 storie brevi. Il modello è quello dell’Antologia di Spoon River.
Tu sei in America da vent’anni, non sei arrivato con la valigia di cartone, come è stato per l’ultima emigrazione popolare, quella del dopoguerra, ma hai fatto comunque tanta strada. Essere italiano è stato un aiuto o ti ha creato difficoltà?
Ho fatto i miei sacrifici, ma nulla a che vedere con i poveri immigranti arrivati decenni prima di me. Per alcuni versi sono un emigrante di lusso. L’essere italiano ha rappresentato un vantaggio: c’è – giustamente – apprezzamento per la nostra grande storia. Ma ovviamente è fondamentale come ci si propone.
Come è percepita, oggi, l’Italia in America? Esistono ancora gli stereotipi? L’instabilità politica, la crisi economica, i nostri mille problemi interni come sono visti?
Purtroppo l’Italia è in larga parte ignorata, salvo episodi clamorosi, come quello della Costa Concordia. Gli stereotipi esistono ma si stanno affievolendo, mentre parallelamente c’è un crescente interesse per Papa Francesco.
Di tutti i tuoi “incontri ravvicinati” con il mondo del cinema e della cultura c’è una persona o un episodio che ti hanno colpito?
L’umorismo lucido di un uomo pessimista come Philip Roth e la curiosità di Don DeLillo. Nel cinema: l’energia di Al Pacino e l’intelligenza di Meryl Streep.
Cosa ti piace e cosa non ti piace nello stile di vita italiano e in quello americano?
I pregi sono sempre il rovescio dei difetti. Dell’Italia mi piace l’eleganza e la rilassatezza e combatto il lassismo e il pressapochismo. Dell’America amo il pragmatismo e l’energia, ma combatto la rigidità e la spietatezza.
Quali sono le tre cose di New York che ami di più?
Amo quello che gli immobiliaristi chiamano il golden triangle: la zona dell’Upper East Side tra la Sessantesima e l’Ottantesima, racchiusa tra il Parco e la Lexington. Quando vado lì ho la sensazione di essere al centro del mondo. Amo Central Park, la grande curva sulla FDR intorno alla 20a strada e l’arrivo a Manhattan dal Queensboro bridge: è la vista urbana più mozzafiato del mondo.
I tuoi prossimi progetti…
A marzo uscirà per Mondadori un romanzo intitolato La casa sulla roccia. È parte di un grande progetto, iniziato con L’America non esiste, che prevede una decina di romanzi sul secolo americano, uno per ogni decennio. Nel frattempo, sto cercando di trasformare “Le Conversazioni” in un festival globale: dopo Capri e New York, dal 2014, sbarchiamo anche a Roma, e stiamo lavorando su altre località per il 2015.