A fuoco un panorama perlopiù inesplorato, “tra appartenenza tribale e americanità” di Lorena Carbonara
Un libro necessario, questo di Emanuele Arciuli. Perché va a ricoprire quello che è rimasto per lungo tempo uno spazio vuoto negli studi culturali internazionali legati alla storia delle popolazioni native d’America, una sorta di non-luogo abitato, nel nostro immaginario, da “ombre rosse” e ultimi Mohicani; perché lascia una traccia sul sentiero che porta alla scoperta di quelle culture indigene che ancora stentano ad essere riconosciute come molteplici e multiformi; perché guarda ad esse con le orecchie, oltre che con gli occhi, fuori dalle dinamiche di tanti addetti ai lavori che finiscono per criticare senza mettere in crisi. Per i sentieri dell’arte nativa americana (CARATTERIMOBILI, 2014) rappresenta invece un viaggio inatteso che il lettore è spinto ad intraprende per mettersi in ascolto dell’altro, di questo artista visuale che, come afferma Arciuli stesso nella sua introduzione, negozia la propria identità tra appartenenza tribale e americanità.
A scrivere è Arciuli/pianista – musicista di fama internazionale – e questa caratteristica biografica incide con originalità sulla scrittura così come sulla stessa attività di ricerca svolta nel corso di anni dedicati con passione alla conoscenza dell’America nativa. A scrivere è anche Arciuli/collezionista – amico degli stessi artisti che cita nel suo testo – e dunque fruitore ultimo delle loro opere. A scrivere è, soprattutto, un cultore ed è per questo che il risultato ottenuto è un testo accurato, ricco dal punto di vista nozionistico, esperienziale e soprattutto emozionale. Un libro denso, dunque, dall’imprevedibile finale leggero. Con i suoi “Consigli di viaggio “ e “Consigli per gli acquisti”, Arciuli ci invita a visitare quegli stessi sentieri percorsi per arrivare a comprendere che esiste un mondo oltre i confini geografici delle riserve indiane e di quelle esistenti simbolicamente dentro ognuno di noi.
Prima di imboccare un percorso rapsodico, come ci racconta l’autore, la narrazione si sviluppa a partire da una sofisticata osservazione: “A differenza di una poesia, di una sinfonia, di un balletto e di un romanzo, i quadri, o le sculture, si comprano. Nel senso che, pagandole, ce ne si assicura il possesso esclusivo. Si può fare, di questi oggetti, ciò che si vuole”. L’opera, in questo caso, è inestricabilmente legata alla sua esistenza materiale davanti ai nostri occhi, sotto le nostre mani, quindi, irripetibile. Al contrario di una sonata di Beethoven, ad esempio, un quadro non può essere “eseguito” altrove, osserva Arciuli, mentre accompagna il lettore in un mondo di riflessioni legate all’arte e al suo mercato, oltre che alla descrizione del panorama artistico visuale nativo americano.
Dalla tradizione artigiana dei pueblo – Arciuli rende omaggio a Nampeyo, la prima grande vasaia Hopi-Tewa – allo sviluppo originalissimo della Ledger Art, i dipinti raffiguranti scene di guerra eseguiti su registri di seconda mano che gli impiegati del Bureau of Indian Affairs distribuivano ai nativi nel corso del diciannovesimo secolo; da Carl Sweezy, che Arciuli definisce progenitore nobile dell’arte pittorica nativa, al fermento che ruota attorno al Museum of Contemporary Native American Art e allo Institute of American Indian Art di Santa Fe; dalla star Georgia O’Keeffe a Jaune Quick To See Smith. Per i sentieri dell’arte nativa americana ci offre tutto questo attraverso il racconto fluido che sgorga dalla competente penna di Emanuele Arciuli, il quale provvede a corredare il testo di una interessante galleria fotografica che permette a esperti e neofiti di partecipare dell’esperienza pittorica in oggetto.
È così, con le riproduzioni di alcune delle opere prese in esame nel libro, che il viaggio di Arciuli volge temporaneamente al termine, lasciando un senso profondo di curiosità e stupore dinnanzi ad un panorama perlopiù ignoto e avvolto da un alone di esotico misticismo a tratti new age. Ma, anche su questo nodoso punto che riguarda la “romanticizzazione”, e mercificazione di massa, della cultura nativa americana, l’autore non dimentica di soffermarsi quando afferma che tra gli artisti nativi “la dimensione del sacro […] è ancora una polvere magica, un necessario incantesimo, un’alchimia che trasforma le cose, la forza primigenia senza la quale la prosa resta prosa e non potrà mai trasformarsi in poesia”.
Emanuele Arciuli è uno di loro, evidentemente.