Nicholas Galanin
“Cerimonia” È tra i pochi artisti d’Alaska che hanno raggiunto prestigio internazionale. Foto, video, sculture e installazioni per raccontare l’identità indiana. Con ironia e incontri inattesi fra culture differenti di Emanuele Arciuli
Nicholas Galanin.
There Is No “I”
Chissà se (e come) il gelo assoluto, che spesso si associa al buio più cupo di intere stagioni con poca o pochissima luce, possa condizionare la struttura del pensiero. L’Alaska è luogo di distese ghiacciate, boschi silenziosi e austeri, il bianco è il colore dominante, i collegamenti sono difficoltosi e tutto si immerge, inevitabilmente, in una dimensione sospesa, lentissima, capace di sovvertire quanto nel mondo occidentale sembra ormai una condanna, e cioè la frenesia di un tempo frammentato, di brevità incandescente, che annulla ogni presente.
In questa sconfinata nazione, la più grande degli Stati Uniti, l’artigianato ha sempre avuto un ruolo centrale, con ossa intagliate, collane, gioielli, piccole sculture, immagini di foche, pesci, orsi a popolare una fauna allegra e colorata; opera di pazienza, di manualità lenta e rituale, ma anche monito a ricordare, sempre, quanto lì il rapporto con la natura sia stringente, perché uscire di casa e trovare un orso sull’uscio, o portare a spasso il cane e doverlo difendere dall’attacco di un’aquila in picchiata, non sono eventi eccezionali.
In Alaska, negli ultimi anni, è cresciuta e si è affermata una nutrita generazione di artisti, molti di origine nativa (Athabascan, Inupiak, Tlingit ecc.), e fra questi almeno tre hanno guadagnato importanti consensi internazionali: Sonia Kelliher Combs, Erica Lord e Nicholas Galanin.
Il mio incontro con il lavoro di Galanin (che si occupa anche di musica, e in quella veste scrive canzoni con lo pseudonimo Silver Jackson) è avvenuto attraverso un video che invito i lettori a guardare sul suo sito o, più semplicemente, su YouTube. Si tratta di un dittico, che gioca sul contrasto fra gli opposti, per dimostrare la pertinenza e insieme la sorprendente fecondità di incontri inattesi fra culture differenti, se si riesce a evitare ogni compiacimento e a restare fuori da visioni stereotipate. Nel primo video un danzatore di musica house si muove, con grande agilità, sulla musica tradizionale di una cerimonia nativa. Nel secondo video, invece, un danzatore in abiti cerimoniali e maschera danza sulle note di un brano house.
Galanin usa lo strumento dell’ironia e dello spiazzamento come cifra poetica.
Tra le sue opere ricordiamo, ad esempio, una serie di foto in cui l’artista pone sulla porta di locali pubblici un neon (ovviamente fittizio e provocatorio) che inibisce l’ingresso agli indiani. O ancora uno degli ultimi progetti, dal titolo irridente “I Loooooove your culture”, che si riferisce alla retorica superficialità con cui ci si relaziona alla civiltà nativa, e alle dichiarazioni – magari sincere – con cui i tanti, ineffabili turisti della cultura a buon mercato manifestano il loro amore per mondi di cui spesso non colgono che la superficie stereotipata e luccicante.
Ma gli stereotipi non affliggono solo la cultura nativa vista dai bianchi, e anzi rischiano di diventare un problema anche per gli indiani. In fondo è abbastanza inattendibile pure l’idea che loro hanno dei bianchi. Spesso ciò genera una catena di equivoci, anche abbastanza bizzarri.
C’è una recente foto, molto bella, di Galanin; un paesaggio notturno, con un lago sullo sfondo, e una scritta ND AN. Indian senza le due “I”, in questo caso sostituite proprio dalla figura di Nicholas, che si sdoppia e si riflette nell’altro sé (o nell’altro DA sé). Al di là del (voluto?) rimando a una serie fotografica di Will Wilson, artista Navajo che adopera spesso lo sdoppiamento della propria immagine (e – per mantenerci sul faceto – anche i capelli a chignon!), questo lavoro di Galanin mi sembra una felice sintesi di un suo percorso recente, e riesce a coniugare tante istanze diverse senza mai perdere di vista la dimensione ludica, né il senso del racconto. Identità indiana/e, appunto.
Guardando altre opere di Galanin, ci imbattiamo in lavori che mettono in secondo piano l’ironia per indagare su alcuni elementi essenziali della sua cultura nativa (Tlingit), per esempio le maschere e i totem. È questo il Galanin “serio”, capace di raggiungere risultati di sorprendente bellezza, per esempio intagliando dei libri che divengono, magicamente, maschere severe e cangianti.
A suo agio nella foto come nel video, nella scultura come nella installazione più ardita, ma sempre riconoscibile, Galanin deve molto all’Alaska, ai suoi paesaggi e ai suoi silenzi, che l’artista percorre da viaggiatore curioso e intelligente, e però mai indifferente alla bellezza.