
Brad Kahlhamer
“Custer è morto per i vostri peccati” È uno dei più interessanti artisti della scena newyorkese.
Nei suoi quadri aquile, coyote, indiani, piume, una vertigine che risucchia lo spettatore.
Ma la condizione nativa non è il fine ma solo il punto di partenza… di Emanuele Arciuli

Brad Kahlhamer. American Landscape with Skull
Ultima fermata, Brooklyn è un celebre libro di Hubert Selby, in cui il distretto di New York (la parola distretto suona un po’ burocratica, non c’è una vera traduzione dell’americano borough, e comunque Brooklyn è di fatto una città) fa da fondale a storie di perdizione, disagio sociale, morte e violenza.
La Brooklyn degli anni cinquanta non è, evidentemente, la città odierna, che pure conserva contraddizioni e problemi, ma pullula di arte, creatività ed energia. Che poi l’arte non possa che proliferare in aree socialmente complesse è un’altra storia.
Fatto sta che, se prendete la metropolitana grigia (quella che a Manhattan parte dalla 14ma) e raggiungete Brooklyn, alla fermata di Morgan Avenue vi trovate di fronte a una serie di capannoni industriali che oggi ospitano gli studi/loft di alcuni dei più interessanti artisti della scena newyorkese.
Fra loro, se posso dirla tutta “più di ogni altro di loro”, ce n’è uno che – a guardarlo – sembrerebbe proprio spuntato fuori dal libro di Selby. E che si diverte un po’ a fare il maudit. Si chiama Brad Kahlhamer, ha un nome tedesco, ma è un indiano americano. Uno dei pochi, pochissimi, artisti nativi che non hanno più bisogno di fare dei distinguo, che possono permettersi di non dover spiegare origini, orgoglio indiano, e tutto il repertorio necessario a molti suoi colleghi che vivono nel Southwest, per esempio. Kahlhamer ha fatto parte della scuderia di Jeffrey Deitch, espone nei maggiori musei, è uno dei pochissimi le cui quotazioni d’asta non crollano miseramente rispetto ai prezzi delle gallerie, è un artista riconosciuto. È indiano, certo, lo è nel profondo, e anche se non vedeste il suo viso da Geronimo lo capireste dai suoi quadri, in cui aquile, coyote, indiani, piume, sembrano usciti dal cappello di un illusionista. E del resto anche il suo studio, bellissimo e inquietante, nel quale figura un coyote impagliato che sembra vivo, tanto per dire, trabocca indianità. Ma non è questo il punto. Perché con Kahlhamer, finalmente, la condizione nativa non è più l’alibi, né il fine della narrazione e della storia. È solo il medium, è il punto di partenza. Per un’arte che raggiunge una intensità drammatica, anzi drammaturgica, che ha pochissimi eguali nella pittura di oggi. Quelle di Brad Kahlhmer non sono storie, sono sogni, o incubi, in cui le figure si trovano sballottate da una parte all’altra della tela, in cui la vertigine delle immagini e delle forme coinvolge lo spettatore, che viene risucchiato nel sogno e ne diviene personaggio. Quasi un dripping in cui, anziché vernice, il pittore spruzza personaggi, storie, vite, morti (un sacco di teschi!), bellissime donne in atteggiamenti fatali e provocanti. Oggi Brad compone anche scene tridimensionali, quasi fondali teatrali, con orride bambole che sono proprio la negazione delle Kachinas che si vendono a Gallup o a Scottsdale, e che i turisti comprano certi di possedere, finalmente, lo spirito di qualche indiano: diamine, l’ho pagata un sacco, deve contenerlo, lo spirito! Poi magari si scopre che è stata fabbricata in Corea. Brad non vuole vendercelo, lo spirito indiano, non scende a patti, se ne infischia. Come direbbe Vine Deloria, “Custer è morto per i vostri [cioè nostri] peccati”. E, sempre Deloria, “per favore lasciateci in pace”.
Che Kahlhamer non sia ancora celebre in Europa, che fatichi a trovare qui il Gagosian di turno, è un mistero glorioso tra i tanti, ahimè, del mondo dell’arte.
Ma la sua arte, il suo tratto geniale che proviene dal fumetto, mai come in questo caso stilizzazione estrema di un segnale di fumo, è una di quelle cose per cui vale la pena collezionare arte, e fare un salto a New York.