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- FEBBRAIO 2018 -
HOME - Usa - Indiani d’America - Ritratto d’artista Jimmie Durham “Diario assolutamente sincero di un indiano part-time”
Indiani d’America
Ritratto d’artista
Jimmie Durham
“Diario assolutamente sincero di un indiano part-time”
L’artista, d’origine Cherokee – che ha una sua personale in corso al Margherita di Bari, fino al 31 agosto – è forse il solo, tra i nomi dei nativi americani, ad aver avuto successo in Europa come artista tout court, con presenze a manifestazioni come Documenta Kassel e la Biennale di Venezia di Emanuele Arciuli
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L'artista Jimmie Durham

Ha un nome che, non so perché, mi fa pensare a un cantante rock, Jimmie Durham.

E, del resto, la sua presenza sulla scena artistica americana, e anche europea (anzi segnatamente italiana, visto che Durham passa gran parte del tempo a Napoli), ha i ritmi e la voce di una Fender Stratocaster, amplificata a una potenza selvaggia, distorta al punto da emettere urla lancinanti, seguite, a sorpresa, da una linea melodica asciutta e dimessa.

Se consultiamo un libro di riferimento di molti collezionisti, galleristi e studiosi di arte nativa, The Biographical Directory of Native American Painters, curato da Patrick D. Lester e pubblicato a Tulsa, Oklahoma, nel 1995, il nome di Durham – allora già cinquantacinquenne – non è accompagnato da lunghe presentazioni, anzi nemmeno dall’anno di nascita. C’è scritto solo che è di origine Cherokee, e poi vi compaiono alcuni rimandi a riviste importanti che si sono occupate di lui. Un piccolo spazio, insomma.

Eppure, fra tutti i nomi (e sono migliaia) di nativi americani riconosciuti nel mondo dell’arte a vari livelli, quello di Durham è forse il solo ad aver fatto breccia nella cultura europea da tanti anni, come artista tout court, protagonista fra l’altro delle più importanti manifestazioni artistiche del vecchio continente, da Documenta alla Biennale di Venezia. E non che Durham rinneghi la propria origine, tutt’altro: è stato attivista dell’American Indian Movement, tanto da lasciare per lungo tempo l’Europa nel 1973 – dove già risiedeva dal 1969 – e seguire più da vicino le vicende del suo popolo.

Però, sia grazie alla sua statura intellettuale, che per le scelte estetiche compiute nella sua carriera, gli è stato possibile scongiurare ogni lettura cristallizzata del suo lavoro, riuscendo a farsi conoscere, accettare e apprezzare come artista senza etichette. Realizzando il desiderio, troppo spesso non esaudito, di molti suoi colleghi nativi che, per un verso o per l’altro, non riescono a liberarsi dalle maglie della semplificazione e del cliché, e continuano a lottare perché fare arte non debba significare necessariamente esibire la propria identità indiana, che è tanto più forte quanto più venga vissuta come cifra esistenziale, personale, e non gagliardetto da esibire, stemma di riconoscimento.

Il lavoro di Durham è fortemente legato alla materia, possiede una forza quasi ancestrale che scaturisce dalla scelta, direi anzi dal riconoscimento, di una materia – spesso si tratta di ready made, legno, pietra o ferro – che possiede una forza evocativa per sé.

Sarebbe inappropriato, in uno spazio così ridotto, tentare una sintesi del pensiero artistico di Durham, ma possiamo senz’altro riconoscervi la volontà di rompere ogni convenzione, di praticare lo spiazzamento e la decontestualizzazione, cifra comune a tutte le sue opere.

Si è spesso scritto, e non a torto, che Durham usa grandi blocchi di pietra per poi negarne la dimensione di monumentalità. Potremmo aggiungere che Durham combatte la retorica, e una serie di significati e di implicazioni ad essa connessi, in primis l’idea di potere; così l’imponenza e la forza primigenia che egli sa tirar fuori dalla materia ci propone una monumentalità nuova. In ciò procedendo in una direzione condivisa da altri in Europa (pensiamo all’arte povera, ad esempio) e in America, dove Durham ha influenzato numerosi artisti, specie nativi.

Che si tratti di una limousine colpita (e distrutta) da un enorme masso, di una pietra con su abbozzato il volto di un indiano, o di un tronco d’albero lasciato così, sul pavimento, quando non issato su un piedistallo povero ed improvvisato, il lavoro di Durham ci appare come una riflessione dura, intransigente, ma poetica sulla dimensione “politica” dell’essere artista, anzi artista nativo: “It would be impossible, and I think immoral, to attempt to discuss American Indian art sensibly without making the political realities central. (Jimmie Durham)

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