
Kevin Red Star
“L’anima dell’Indiano” Figlio d’arte e dotato di un grandissimo talento per il disegno, Kevin Red Star si è formato, negli anni Sessanta, con i grandi insegnanti dell’Institute of American Indian Art di Santa Fe.
Nella sua arte una dimensione quasi onirica ma anche ironia sottile di Emanuele Arciuli

Un dipinto di Kevin Red Star
Nell’immaginario comune la pittura dei nativi è associata a un misto di naïveté e folclore.
Come ogni stereotipo anche questo contiene un poco di verità, ma le cose sono assai più complesse. E anzi la scuola, l’idea di scuola, è un elemento costante e fondante nell’arte degli indiani americani. A Santa Fe la pittrice Dorothy Dunn – non amerindia – fondò, negli anni Trenta del secolo scorso, un’accademia che, per trent’anni, svolse un ruolo importantissimo, formando artisti di grande spessore, come – per citarne solo alcuni – Allan Houser, Pablita Velarde, Quincy Tahoma e Oscar Howe. L’impostazione dello Studio School for Native Artists era però tesa a confermare una sorta di cliché, uno stile che rispecchiava, pur sviluppandolo, il modo dei primi artisti nativi dell’inizio secolo, come Carl Sweezy o i Kiowa Five: una pittura monodimensionale, senza veri giochi prospettici, perlopiù concentrata nella rappresentazione di figure (in genere guerrieri o danzatori, tipicamente ritratti di profilo) e funzionale all’idea di come, per i bianchi, dovesse essere la pittura nativa. Va detto che i pittori citati (in particolare Howe) conobbero, nel corso della loro carriera artistica, un’evoluzione originale e in alcuni casi assunsero posizioni polemiche verso la tradizione volgendo lo sguardo in direzioni più interessanti e meno scontate. Ma fu con la creazione dell’Institute of American Indian Art (IAIA) – sempre a Santa Fe, negli anni Sessanta – che l’arte nativa cominciò ad affrancarsi dagli stereotipi e a conquistare la scena internazionale, in virtù della estrema varietà di approcci e di poetiche, oltre che della qualità della proposta artistica. Tra i giovani invitati a studiare a Santa Fe c’era un indiano Crow del Montana, Kevin Red Star, dotato di un grandissimo talento per il disegno, che – deciso a percorrere le orme paterne (Kevin è figlio d’arte), ma su più solide basi accademiche – prese il suo primo aereo alla volta di Santa Fe, negli anni Sessanta, e lì studiò con alcuni dei grandi insegnanti dell’IAIA (da Loloma a Houser a Kiva New), venendo poi in contatto con Tommy Cannon e Fritz Scholder. Oggi Kevin Red Star continua a risiedere in Montana, nella riserva Crow, ma possiede anche una casa a Santa Fe; è rappresentato dalla importante galleria di Alex Windsor Betts, riferimento per qualunque collezionista di pittura nativa, ed è artista internazionalmente acclamato, nonostante che la semplicità e la soavità del tratto umano nulla abbiano a che fare con lo star system. Ad uno sguardo superficiale le sue tele possono sembrare troppo “facili”, specie per il gusto europeo, perché raffigurano guerrieri nativi, o scene della riserva, o tende indiane, con una onestà e un candore che nulla hanno a che fare con gli intellettualismi e le sofisticherie che, talvolta, parrebbero atteggiamento imprescindibile per un artista che voglia essere “preso sul serio”. Ma una visione più attenta e profonda delle tele di Red Star ci restituisce, invece, un’arte complessa, in cui alla rappresentazione fedele si unisce una dimensione quasi onirica, di visione, di sogno, come se la galleria di personaggi di Kevin Red Star costituisse una dolcissima e assieme tremenda epifania di spiriti, di un passato che si mescola al presente, con un’ironia sottile a segnare le sue tele. Che, con i loro fantastici colori e il tratto personalissimo e suadente, possiedono la rara capacità di restituirci – per citare il leggendario libro di Charles Eastman – la più autentica anima dell’indiano.