
Mateo Romero
“Uomini sulla Luna” Tra i pittori di maggiore successo nel South West degli Stati Uniti, Romero affronta tematiche diverse: l’imperialismo, la guerra, l’invasione del territorio ma anche scene cerimoniali della comunità o ritratti di amici di Emanuele Arciuli

Mateo Romero. Pray for rain. Foto di Phillip Karshis
Simon Ortiz, poeta e scrittore, ha vissuto gran parte della sua vita nella Acoma Reservation in New Mexico, tra Albuquerque e Gallup. Voce interessante e autorevole della letteratura nativa, Ortiz ha scritto fra l’altro una raccolta di racconti intitolata Uomini sulla Luna (in Italia edita da Quattroventi). Perché sto parlando di lui? Perché, per descrivere i quadri di Mateo Romero, non saprei trovare titolo più giusto della raccolta che ho appena menzionato.
Anche Romero, come Ortiz, è un indiano Pueblo (Cochiti, per l’esattezza), vive in New Mexico vicino a Santa Fe, nella riserva Pojoaque (assieme ai figli e alla moglie Melissa Talachy, bravissima artista di vasi), ed è fra i pittori più noti e di maggior successo di quell’area degli Stati Uniti conosciuta come South West, la cui capitale culturale è Santa Fe, e i cui centri nevralgici appartengono ai cosiddetti Four Corners: Utah, Colorado, Arizona e New Mexico.
Romero incarna, anche nell’aspetto fisico, l’immagine classica dell’indiano: imponente, capelli lunghi corvini, occhi penetranti, aria tranquilla ma mai dimessa. Qualcuno lo ha definito un guerriero moderno, e d’altro canto è vero che, più in generale, gli indiani abbiano sostituito le armi coi pennelli; al punto che oggi l’arte, specie pittorica, è la caratteristica saliente di gran parte delle comunità native.
Incrociai per la prima volta la pittura di Romero nel 2005, visitando il Museo di Arte Moderna a Denver (quello progettato da Daniel Liebeskind), un intero piano del quale è consacrato ai Native Americans. Lì è esposta la serie Bonnie e Clyde, in cui Romero dipinge amici e conoscenti coi tipici colori forti del “medialismo” pittorico, una maniera diffusa in Europa come negli Stati Uniti, specie negli anni Novanta, e che guarda alla televisione e al cinema. I personaggi di questi quadri raccontavano storie e situazioni capaci di restituire perfettamente l’idea un po’ maudit di una gioventù difficile, alienata, e però attraversata da una poesia nuova, mai sentimentale né retorica, piuttosto nutrita della narrativa americana contemporanea di area minimal, Ellis, Carver, Tama Janowitz. Nel tempo mi sono persuaso che la pittura di Romero è altrettanto diretta ed essenziale. Il suo tratto pittorico (Romero usa tanto i pennelli quanto le dita, per dipingere: una vera immersione fisica nel quadro) è denso e con una forte vocazione al racconto. Negli ultimi anni, sin dalla guerra del Golfo, Romero ha riflettuto sui tratti universali di temi come la dominazione, l’imperialismo, la violenza, la guerra, l’invasione e l’occupazione del territorio; non è infrequente che – in un curioso gioco trasversale, come una macchina del tempo e del luogo che si diverta a creare inattesi corto circuiti – la Corea del Sud, il Vietnam e l’Afghanistan si trovino correlati a Wounded Knee.
Ma l’impegno politico è solo un aspetto della complessa riflessione di Mateo sull’identità del suo popolo. Da autentico artista Pueblo, egli si trova, in fondo, a ripercorrere una lunga storia che comincia agli albori del Novecento, con la scuola di Dorothy Dunn, e con pittrici e pittori (da Geronima Cruz Montoya a Pablita Velarde, da Quincy Tahoma a Pop Chalee) che esaltano le scene cerimoniali, la vita della comunità, in contrasto con lo stile più in voga in Oklahoma (si pensi ai Kiowa Five) più centrato sull’individuo. I danzatori, tra i soggetti prediletti dell’artista, sono degni eredi di una tradizione che con lui si rinnova accogliendo temi e tecniche della contemporaneità.
I personaggi sono ritratti con attenzione realistica ai dettagli (vestiti, copricapi, bastoni utilizzati nella Deer Dance), ma i colori e la luce proiettano queste figure in una dimensione lunare, quasi fossero astronauti che, con le loro danze, tastano un terreno nuovo, o ne propiziano un rinnovamento perpetuo. Il ritmo, il movimento, sono assieme vivaci e lentissimi, come privi di gravità, e possiedono una grazia arcana e solenne.