
Tra arte e musica nel cuore del New Mexico Il pianista barese, specializzato in brani dedicati ai nativi americani, commenta la grande fiera di Santa Fe, dedicata alla loro arte, e racconta del suo concerto che ha aperto la manifestazione di Emanuele Arciuli

Il pupazzo concepito ed elaborato
in modo squisito da Jamie Okuma
ha vinto il “Santa Fe Indian Market's
Best of Show 2012”.
Okuma (Luiseno/Shoshone Bannock)
ha molti “Indian Market Best of Shows”
nel suo repertorio e ha vinto il primo
nel 2000 – l'artista più giovane che
mai abbia vinto il premio.
Foto di
Luis Sanchez/Saturno/The New Mexican.
This picture and caption are taken
from the site: www.swaia.org
Ogni anno, nel terzo weekend di Agosto, Santa Fe ospita l’Indian Market, manifestazione di particolare importanza per gli appassionati di arte e cultura nativa americana. La storica Plaza, cuore pulsante della meravigliosa capitale del New Mexico, accoglie in quei giorni migliaia di visitatori provenienti da ogni angolo degli States (ma ne arrivano da ogni parte del mondo). L’Indian Market è una fiera in piena regola. Vi espongono gioiellieri, vasai, tessitori di tappeti, scultori, fotografi, pittori, molti dei quali hanno ormai acquistato una solida reputazione internazionale e sono rappresentati da gallerie importanti; le quali concedono ai propri artisti, per questi due specialissimi giorni, di vendere direttamente ai propri collezionisti senza, dunque, alcuna forma di intermediazione.
Da noi sarebbe inimmaginabile che Pistoletto, Pignatelli o Galliano vendessero direttamente le proprie opere, per giunta in una fiera. Forse ce lo si potrebbe aspettare da Cattelan, ma sarebbe una boutade, una provocazione, uno spiazzamento. Invece a Santa Fe il tutto è vissuto con naturalezza e candore.
Quest’anno, accanto ai nomi di giovani promettenti o di artisti conosciuti ma non ancora consacrati, esponevano personalità come Jody Naranjo, Roxanne Swentzell, Linda Lomahaftewa, Nocoma Burgess, Mateo Romero.
Che questi nomi dicano poco o nulla al mondo dell’arte in Europa la dice lunga sulla condizione di separatezza e isolamento in cui, ancora oggi, versa l’arte dei nativi americani. Che ha, certo, bisogno dell’Indian Market, ma soprattutto di farsi conoscere per ciò che è: non più una curiosità per antropologi della cultura e musei etnografici, ma una espressione moderna, interessante e complessa, che merita di trovare uno spazio nel mondo dell’arte tout court, senza confini e senza riserve.
La mia presenza a Santa Fe, quest’anno, non era legata solo all’interesse di collezionista e appassionato di arte nativa, ma pure alla mia attività professionale. Suonavo, infatti, per il Santa Fe Chamber Music Festival. E si trattava proprio del concerto di apertura dell’Indian Market.
Il St. Francis Auditorium, spazio meraviglioso prospiciente la Plaza, ospitava il mio concerto trasmesso, attraverso degli altoparlanti di altissima fedeltà, nelle strade attigue. La città, svuotata delle auto e occupata dalle candide tende degli stand, aveva già assunto il suo caratteristico e un po’ surreale aspetto fieristico.
Per questo concerto ho scelto un programma intrinsecamente legato all’arte dei nativi: chiedendo a sette compositori americani di scrivere altrettanti pezzi, guardando proprio all’arte degli artisti indiani. Il tutto col prezioso sostegno di Aeroporti di Puglia, che ha avuto l’idea di sostenere il costo delle commissioni.
Il risultato è una sorta di suite di circa cinquanta minuti, con stili e approcci del tutto diversi. Si va dal postminimalismo di Kyle Gann a insospettabili e scintillanti suggestioni scarlattiane di Morton Subotnick, uno dei padri storici della musica elettronica. Si prosegue con un’intensa trenodia di Huang Ruo che, nel finale, utilizza pure un flauto a coulisse. Con John Luther Adams, poi, siamo in presenza di incandescenti e monolitici blocchi accordali, mentre Martin Bresnick si diverte ad utilizzare per l’intera durata (nove minuti circa) una melodia di soli tre suoni immersa di volta in volta in contrappunti e campi armonici cangianti. Peter Garland ha composto un dittico, Blessingway, una sorta di inno alla notte e al mattino di cui ho eseguito la prima parte, intrisa di una poesia sommessa e sottile.
Per finire con un piacevole brano di Daugherty, in cui compaiono molti tratti essenziali della sua maniera compositiva.
Le suggestioni da cui i musicisti americani han tratto ispirazione sono state, nell’ordine, Dan Namingha, Gerald Cournoyer, Jaune Quick-to-See Smith, l’arte Inuit, Judith Lowry, gli antichi petroglifici e Fritz Scholder.