
Il fotografo degli indiani d’America La sua monumentale opera fotografica documentò un mondo in via di estinzione.
Dai capi piumati a cavallo alla vita nelle riserve di Lorena Carbonara

Edward Sheriff Curtis
A partire dal 1901 e per oltre trent’anni Edward Sheriff Curtis (1868-1952) documentò fotograficamente circa ottanta gruppi tribali del Nord America, scattando quarantamila pellicole e registrando, con uno dei primi strumenti Edison, le lingue parlate da questi popoli. Con l’intento di testimoniare l’esistenza di quella che veniva considerata dalla società americana del tempo una “vanishing race”, questo etno-fotografo portò a termine un lavoro eccezionale seppur oggetto di critica da parte della storiografia a lui contemporanea e postuma.
Gli indiani di Curtis sono spesso messi in posa, regali nell’aspetto e nella forma e dunque poco reali, secondo alcuni critici, che in questa maestosità intravedono l’ombra della romanticizzazione della figura del pellerossa. Appartenente alla tradizione pittorica della fotografia, Curtis realizzò immagini dal carattere impressionistico più che documentaristico, spesso accordandosi con i modelli indiani prima dello scatto e pagando il sevizio reso.
Morto ignoto al grande pubblico e rivalutato solo nel corso degli anni settanta del novecento, il fotografo aveva ventun anni quando il massacro di Wounded Knee (1890), passato alla storia come il momento culminante e ultimo della lotta tra cultura bianca e cultura nativa, segnò l’opinione pubblica americana e probabilmente influenzò la sua percezione sentimentale del mondo indiano.
Nei testi che accompagnano la monumentale opera fotografica, Curtis descrive la vita nelle riserve con tutte le sue contraddizioni, seppure continua a scattare immagini “iconiche” di capi piumati a cavallo che dominano una natura incontaminata. Come afferma Hans Christian Adam nell’introduzione a Indiani d’America della Taschen (2007), “è accaduto che l’indiano mistico di Curtis sia stato collocato accanto al cowboy solitario che cavalca nel tramonto, scena di chiusura di molti film”.
Cadere nello stereotipo è infatti cosa alquanto facile quando si affronta il tema della rappresentazione visuale del nativo o del pioniere, a turno messi in scena come “ombre rosse” (dall’omonimo film di John Ford del 1939, il cui titolo in lingua originale è Stagecoach) e “visi pallidi” (dal nome del cortometraggio muto scritto e interpretato da Buster Keaton nel 1922, Paleface).
La critica di “eccessiva artisticità” delle fotografie mossa a Curtis dagli accademici dell’epoca si basava sulla constatazione che quello che lui descriveva graficamente era un mondo “in via di estinzione”: mentre gli Apsaroke delle immagini andavano a cavallo e le donne Maricopa intrecciavano cestini, mentre le donne della tribù Hesquiat raccoglievano bacche e i Sioux Oglala innalzavano la sacra pipa al cielo per pregare il Grande Mistero, negli Stati Uniti venivano prodotte le prime automobili in serie.
Che si trattasse o meno di un mondo in via di estinzione è argomento controverso: da un lato, la massiccia presenza dell’uomo bianco nei precedenti secoli aveva interferito nella vita delle popolazioni indigene, modificandola notevolmente; dall’altro, le culture native d’America non erano “svanite” davanti all’incalzare del colono o del pioniere, come la teoria della “vanishing race” faceva presupporre.
Edward Sheriff Curtis di certo ebbe il pregio, il cui risultato è sopravvissuto nei secoli fino ad oggi, di voler incontrare gli individui e non i personaggi, di non mischiarsi ai turisti che nella prima decade del novecento assistevano alla Danza del Serpente degli Hopi durante i viaggi in treno sulla linea ferroviaria Atcheson, Topeka & Santa Fè come fosse uno spettacolo confezionato ad hoc.
The North American Indian, l’enciclopedia in venti volumi pubblicata tra il 1907 e il 1930, è il risultato dell’opera dell’etno-fotografo che coprì un territorio spazialmente vastissimo e un’epoca di transizione socio-culturale molto delicata. L’occhio della macchina fotografica era di certo un occhio bianco, dato di fatto importante per comprendere la prospettiva dalla quale il nativo veniva inquadrato; eppure, non si può prescindere dal notare la grande forza espressiva e atemporale dei ritratti di Raven Blanket (Nez Percès), Morning Eagle (Piegan), Two Moons (Cheyenne) e di tutti coloro che si s-velarono davanti all’obbiettivo di Curtis.