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Indiani d’America
“Uccidi l’indiano e salva l’uomo”
Il buio capitolo della scolarizzazione dei nativi americani
Taglio di capelli, sostituzione dell’abito tradizionale con un’uniforme, divieto di parlare la lingua nativa e di professare il proprio credo, tra i “doveri” dei ragazzi indiani che a fine Ottocento approdavano nelle Boarding Schools.
Pratiche mirate allo sradicamento che lo storico D.W. Adams definì “educazione all’estinzione”
di Lorena Carbonara
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Fine Ottocento. Uno studente nativo prima e dopo il suo ingresso nella Carlisle Boarding School, in Virginia

      Un capitolo della storia americana quasi mai raccontato è quello delle popolazioni native del Nord America, i cosiddetti “indiani” o “pellerossa”. In realtà, di loro si è scritto e narrato per immagini in maniera massiccia nel corso di tutto l’Ottocento e del Novecento, ma poche volte si è affrontato il discorso dal punto di vista di chi ha perso letteralmente “la terra da sotto i piedi”. Nei secoli della colonizzazione europea, sul territorio americano, infatti, la minaccia alla sopravvivenza fisica e culturale dei popoli nativi giunse sottoforma di malattie ignote, di stermini nel corso delle numerose guerre, di trattati politici che sancivano la sottomissione dei capi indiani e, infine, sottoforma di scuole.

      La scolarizzazione dei bambini nativi americani ancora oggi rappresenta una pagina bianca nel libro della storia di un paese tanto vasto e variegato come gli Stati Uniti, che già nel Settecento aveva rivendicato l’indipendenza dalla madrepatria inglese. Eppure a questo riguardo ci sarebbe tanto da raccontare: a partire dall’istituzione delle Boarding Schools alla fine dell’Ottocento, periodo in cui alla “questione indiana” il governo americano non aveva ancora trovato soluzione definitiva. Per definitiva, s’intende una soluzione che ponesse fine alle rivendicazione delle popolazioni native che venivano spinte sempre più verso Ovest e confinate in ghetti chiamati riserve indiane.

      Pubblicizzate con lo slogan “Kill the Indian and save the man” (Uccidi l’indiano e salva l’uomo), nel corso dell’Ottocento vennero istituite dal governo americano scuole per bambini e ragazzi nativi nelle quali essi avrebbero potuto imparare i civilizzati modi dell’uomo bianco, che includevano l’alfabetizzazione in lingua inglese e la religione cristiana. Tale civilizzazione, che lo storico D.W. Adams definì nel 1995 “education for extinction” (educazione all’estinzione), avveniva attraverso una serie di pratiche mirate allo sradicamento di tutto ciò che c’era di indigeno (Indian) all’interno e all’esterno degli allievi (man).

      Taglio di capelli, sostituzione dell’abito tradizionale con un’uniforme, cambio del nome proprio e imposizione di un nome cristiano, divieto di parlare la lingua nativa e di professare il proprio credo: ecco la lista di alcuni dei “doveri” dei ragazzi che approdavano in queste scuole a carattere militare, dove venivano rigorosamente fotografati prima e dopo l’operazione di “civilizzazione”. È così che gruppi di giovani nativi nei loro molteplici abiti tradizionali, con le capigliature tipiche di ogni tribù, con i propri usi e costumi, con la propria lingua e il proprio dio, venivano tramutati in schiere di soldatini in uniforme che marciavano inconsapevoli verso l’estinzione.

      Istruiti a divenire buoni lavoratori i maschi e brave cameriere le femmine, essi si preparavano ad entrare nel mondo socio-economico bianco con una precisa etichetta cucita addosso dal sistema europeo al quale essi apparivano poco scaltri e reticenti alla civilizzazione. In realtà, privati delle loro radici e incanalati in un sistema societario alieno, questi ragazzi perdevano ogni contatto con il mondo degli antenati tanto caro alle loro culture d’origine; per di più, gli abusi psicologici e spesso anche fisici subiti in queste strutture (come brillantemente mostra il film di Georgina Lightning Older Than America, 2008) ammazzavano lentamente ogni forma di self-reliance (fiducia in sé) concetto su cui si fondava la società americana, paradossalmente.

      Pare quindi essere vero che un buon indiano è un indiano morto, controverso detto che riecheggia ancora tra le montagne rocciose e il Mississippi, se si considera la morte interiore causata all’interno delle scuole a questi ragazzi, i quali svilupparono una vera e propria sindrome post-traumatica chiamata “residential school syndrome” (W. Churchill, 2004). Generazioni di donne e uomini che oggi lottano contro l’alcolismo, la violenza, un alto tasso di suicidi e la perdita totale di ogni forma di radicamento all’una e all’altra società.

      Dunque, non sono soltanto le guerre a causare lo sterminio dei popoli e l’estinzione di una cultura, che possono invece avvenire silenziosamente in sottofondo mentre in superficie il mondo si evolve verso l’omologazione. “Our spirits don’t speak English” (Il nostro spirito non parla inglese), denuncia il titolo di un recente documentario che narra l’esperienza dei bambini nativi nelle suddette Boarding Schools e in maniera assolutamente concisa esprime la necessità di lasciare che ognuno parli la lingua della propria anima.

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