

New York. Lincoln Center. Metropolitan Opera House. Foto di Santi Visalli
Il Lincoln Center è un complesso di edifici dedicati all’arte della musica. Ed è di più: un’isola magica quasi lambita dalle onde dell’Hudson, dove una fontana al centro di una piazza che ti sembra medievale, fa sentire il suono dei suoi nivei zampilli, quasi a prepararti alla musica solenne che ti aspetta nel famoso, mitico Metropolitan.
Ogni volta che ci arrivi, hai l’impressione di essere lì per la tua prima esperienza di spettatore e cultore di musica lirica. Quello che hai visto la settimana passata, anzi ogni anno passato, ti appare nuovo e mai visto prima. Non puoi fare a meno di ammirare stupito i due giganteschi murali di Marc Chagall, a destra e a sinistra dell’ingresso al teatro, l’uno rappresentante Il Trionfo della Musica, l’altro Le Fonti della Musica, ma entrambi capaci di prestare anche a te le ali di quelle ninfe eteree volteggianti sul tuo capo. Penseresti subito al nostro Campidoglio se, al posto della fontana, ci fosse la statua equestre di Marco Aurelio. E subito, qui dimentichi la magia, del tutto diversa, di Times Square, la zona dei teatri e dei musicals visitati ieri. Qui le luci non sono chiassose, non sembrano caderti addosso, ma sono delicate anche se forti, pacate anche se vivide, familiari anche se spettacolose. Qui tutto è nuovo e quasi mistico, perché, a differenza di Times Square, dove regna il cabaret, qui ti schiude le porte il “Tempio dell’Arte”.
Ci sono tornato proprio ieri sera, per la decima volta nella presente stagione lirica, per una rappresentazione della Lucia di Lammermoor di Donizetti. Devo dire, tra parentesi, che, in questi tardi anni della mia vita, dedico più tempo alla musica che alla letteratura, forse perché la parola non esiste senza suono mentre il suono può esistere senza la parola.
Come sempre, mi sono seduto al mio posto d’abbonamento in platea, voltandomi più volte, senza dar nell’occhio, ai sei livelli circolari che formano il teatro e non pensando affatto ai sette piani sotterranei che costituiscono la rimessa di scene e costumi e migliaia di accessori vari richiesti per ogni opera. E, come sempre, il tutto esaurito: 3.800 comode poltroncine rosse già tutte occupate. Con un po’ di nostalgia e un tantino di acquolina in bocca penso al pranzo da favola che, due ore prima che incominci la rappresentazione, e con previa prenotazione, si può fare nel Grand Tier, dietro i murali di Chagall, al livello del primo ordine di palchi. Pranzo da favola perché le più squisite rarità della cucina italiana sono servite in un’atmosfera d’indescrivibile eleganza e – dulcis in fundo – il dolce finale lo ordini prima di lasciare la tavola e lo trovi poi bell’e invitante allo stesso posto della tua tavola quando torni a consumarlo durante il primo intervallo. È fiabesco ogni particolare, naturalmente anche il costo del tuo sogno finalmente realizzato.
Trattandosi, questa sera, di opera italiana, non devo premere quel piccolo bottone che mi apre “il traduttore” sulla spalliera del sedile davanti al mio, una striscetta di un paio di centimetri che, senza disturbare chi sta al fianco, in lettere luminose traduce ogni frase cantata sul palcoscenico.
Ed ecco, puntualmente alle ore 20.00, i dodici lampadari di finissimo cristallo che illuminano la platea, come per incanto, tutti insieme, cominciano a muoversi verso l’alto finché si spengono e s’involano oltre la volta già scura. Il direttore d’orchestra è ormai sul podio; si vedono ora soltanto le piccole luci sui leggii della partiture, ed è immediata la malia della musica di Donizetti.
Poiché ho visto più volte quest’opera, tratta dal romanzo di Walter Scott, The Bride of Lammermoor (La Sposa di Lammermoor), mentre riascolto le celebri arie “Verranno a te sull’aure/ i miei sospiri ardenti,” “Tombe degli avi miei,” e “Tu che a Dio spiegasti l’ali,” mi lascio sopraffare da una distrazione. Mi viene in mente il San Carlo di Napoli, dove, nel 1835, fu data la prima di quest’opera, e penso poi al Teatro alla Scala, alla Fenice, al Massimo, al Petruzzelli, e ad altri teatri lirici italiani, tutti ricchi di una storia che questo nuovo Matropolitan americano, inaugurato nel 1966, non può vantare; né poteva vantarla quello vecchio, fondato da pochi magnati di New York nel 1880 e operativo dal 1883 con Il Faust di Gounod, cantato in lingua italiana. Eppure questo Metropolitan è ora il più rinomato teatro lirico del mondo, sì che non è completa e universale la fama di un cantante che non ne abbia calcato le scene. E ho pensato all’infelice Donizetti, assolutamente degno di essere paragonato a Giuseppe Verdi per ricchezza di melodie, varietà di temi musicali e fecondità d'ispirazione. Mi chiedevo quanto avrebbe perso il nostro Verdi se la sua opera non si fosse fortunatamente coinvolta con la storia del Risorgimento italiano, e quanto, invece, avrebbe guadagnato Donizetti se sulla sua vastissima produzione (più di settanta opere) non si fosse abbattuta la sifilide, la pazzia e una morte prematura.
L’opera di Donizetti è terminata ed esco nella notte ancora luminosa del Lincoln Center. Il freddo intenso dell’inverno mi afferra nelle sue spire ma l’euforia della musica ascoltata pervade il mio spirito e quasi rende gradevole ogni soffio gelido che mi minaccia.
Mi trovo fra la marea di gente scesa dall’ampia scalea dell’atrio, che ora si riversa nella piazza dove la fontana quasi si raccomanda alla notte con i suoi zampilli rimpiccioliti. L’inglese lo sento qui e là, tante sono le lingue delle centinaia di persone alle prese con un’operazione non facile: richiamare l’attenzione di un taxi libero fra i mille e mille già occupati da gente proveniente da altri teatri e dagli innumerevoli ristoranti di Manhattan.
A mezzanotte, questa contea di New York vive la sua ora più frenetica: sembra che qui si diano appuntamento i turisti di ogni continente, che, naturalmente, dalle loro nazioni di provenienza hanno da mesi prenotato divertimento e nutrimento (e non dimentichiamo i turisti degli altri quarantanove stati degli Stati Uniti d’America). Un mulinello di suoni, una baraonda di fogge e di mode, un mondo nel mondo. Ti senti vivo e comprendi che devi, assolutamente devi, tornare al Lincoln Center.