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- FEBBRAIO 2018 -
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Letteratura
Se dal Salento si rievoca “l’isola di Rina”… Un film-documentario e un libro di testimonianze, a cura di Caterina Gerardi, dedicati alla figura della scrittrice salentina, Rina Durante. A partire dall’infanzia nell’isola di Saseno, in Albania di Giovanni Invitto
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Isola di Saseno (Albania). Anni ’30. Rina (in piedi) con le tre sorelle

Anni fa, quando diventammo amici, Rina mi dedicò La Malapianta con questa frase: “A Giovanni, che sa tutto di me e, per fortuna, non lo dice”. Lei si riferiva a piccoli problemi di famiglia che mi aveva comunicato nella speranza di qualche soluzione.

Abbiamo avuto da Caterina Gerardi quello che lei stessa ha definito “un libro, un dono, un abbraccio”. Perché collego le due dediche? Perché ora “so tutto” di Rina. Il lavoro di Caterina costituito da uno splendido film-documento, L’isola di Rina. Ritorno a Saseno, titolo che è anche del libro che ha scritti-testimonianze.

Il lavoro fatto da Caterina Gerardi di memorie pone un punto fermo sulla scarsa letteratura che è disponibile oggi sulla intellettuale salentina. Il filmato Ritorno a Saseno, che cuce immagini rare (quelle dell’infanzia di Rina) con immagini della contemporaneità, amplia anche dal punto di vista qualitativo e documentaristico l’archivio della memoria. Le voci che ascoltiamo sono quella di Rina, di Caterina, di Pia.

Ne esce un quadro abbastanza ricco e puntuale che si confronta con le memorie di alcuni di noi. E quella bambina di Saseno è rinata in quest’opera composita di Caterina, donna vulcanica e creativa che io conosco dagli anni Sessanta quando studiava per gli esami universitari con mia sorella Antonietta, che oggi, purtroppo, non può apprezzare il valore della antica compagna di studi.

Di Rina Durante sentivo parlare spesso durante la mia giovinezza. Era la giovane scrittrice che si era trasferita a Roma anche per avere una solida piattaforma di lancio, adeguata all’incipiente notorietà nazionale. Poi, delusa dall’ingorgo umano costituito dalla capitale, dalla burocratizzazione anche di strutture culturali, che sarebbero dovute rimanere agenzie di supporto agli artisti e agli operatori culturali, lei tornò nel Salento. Riallacciò i suoi rapporti vitali con personaggi decisivi, come Adriano Barbano, fotografo e regista, con cui Rina girò il film Tramontana, Vittorio Pagano, poeta “maudittanto meno letto quanto più evocato nell’interno della triade salentina (Comi, Bodini, Pagano). Con Comi, la sua Accademia lucugnanese e la rivista “L’Albero”, Rina Durante e Maria Corti avevano fatto l’ingresso nel mondo della letteratura dalla porta principale.

Dopo lo sfilacciamento dell’esperimento di Lucugnano, mentre la Corti proseguì la sua carriera universitaria a Pavia, con una breve parentesi a Lecce, Rina riprese la sua attività di docente nella scuola media e superiore. Poi l’importante parentesi romana che lei ricordava, negli ultimi tempi, senza grosso entusiasmo. La Malapianta, pubblicata con Rizzoli, le fece ottenere, a metà degli anni Sessanta il Premio Salento: unico premiato salentino in assoluto in quelle edizioni prestigiose di circa quindici anni.

Tornata da noi, si rituffò, con la sconsiderata generosità di sempre, nelle viscere della nostra cultura. Nei primi anni Settanta fondò il “Canzoniere grecanico salentino” che riprendeva la scoperta della etnomusica e della musica folklorica. Rina Durante si spese così, monopolizzata dal suo interesse per le radici, l’identità e l’autenticità, non avendo mai paura di dire e scrivere cose “irregolari” di sé e degli altri. In quello che scrisse nell’ultimo volume uscito con lei viva disse alcune cose su Vittorio Pagano che le costarono l’amicizia e il saluto della sorella del poeta. Ma lei, sempre sorridendo, diceva che aveva detto solo cose vere.

L’ho conosciuta di persona, in maniera stretta e amichevole, nell’ultimo decennio. Era già pensionata, e le sue esigue risorse servivano anche a una rete di parenti, nei confronti dei quali lei ha avuto sempre l’atteggiamento della chioccia protettiva.

Come ha scritto Maria Forcina in un testo apparso su “Via Dogana”, Rina ripeteva spesso che tutto quello che sapeva l’aveva appreso da sua madre, la sua prima maestra. Ed era vero: così torniamo all’opera di Caterina, dove i passaggi biografici sono sottolineati. Non solo perché aveva passato l’infanzia di fronte alla baia di Valona, nell’isola di Saseno, anche oggetto specifico della documentazione filmica di Caterina Gerardi. A Saseno, dove il padre era stato inviato come comandante della Marina Militare, lei e le sorelle impararono a leggere e scrivere, grazie alla madre che insegnò loro il gusto per le parole e la cura della scrittura. Da lei Rina aveva anche imparato a giocare, cosa che insegnano tutte le mamme. Come dei giochi, serbò il ricordo delle ninnananne materne.

Lei era tornata nel Salento e aveva ripreso l’insegnamento, cercando quella pienezza di vita di cui aveva narrato nel romanzo scritto a 36 anni, che non era, come è stato scritto, un mondo scomparso senza morale e perduto in un destino di animali, ma dove aveva raccontato di una pienezza di vita simile a quella delle tante male piante che crescono sulle zolle salentine. Per tutto questo grumo di storie di vita, il lavoro di Caterina Gerardi rilancia in maniera forte, piacevole, documentata questa figura iniziatrice dell’autonomia e dell’autorità – per usare un termine rilanciato da Luisa Muraro – culturale delle donne salentine e non solo. La maestria di Caterina, la dolcezza nel narrare l’amica fanno sì che cd e testo non siano la documentazione asettica di una vita e di un’opera ma la storia di una donna che ha fatto scelte coraggiose da tutti i punti di vista, sulla propria pelle, senza chiedere rimborsi materiali e morali, e sempre con l’ironia, segno di una fine intelligenza pronta a ridimensionare se stessa e la vita.