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- FEBBRAIO 2018 -
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Letteratura
Giuseppe De Dominicis,
poeta degli umili
Nato a Cavallino, in provincia di Lecce, nel 1869, è uno dei maggiori poeti in dialetto salentino.
Bohémien ed eccentrico, conosciuto anche con il nome di Capitano Black e con altri soprannomi, ha al suo attivo una produzione dialettale irresistibile, copiosa e poliedrica, incentrata sui temi della giustizia sociale
di Sergio D’Amaro
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Il poeta Giuseppe De Dominicis

Giuseppe De Dominicis nacque praticamente con l’Unità d’Italia e morì giovane, a 36 anni, nel 1905, quando la penisola si avviava ad una sua giusta modernità fatta di mille contraddizioni e di mille ritardi. Cavallino, il paese natale, soffriva di sud come tanti altri paesi sparsi tra monti e pianure dell’ampia Puglia contadina di allora. Ci si affidava ad un’economia fatta di sacrifici, di sudore, di subordinazione secolare. Lo sforzo di far penetrare una più larga diffusione della scuola e della cultura si riconnetteva immediatamente a certe movenze deamicisiane di riscatto delle masse proletarie da secoli di discriminazione e di ingiustizia. Eppure, quando potevi leggere, alfabetizzarti, inoltrarti sempre più nella tradizione letteraria e insieme tener vicina la tua ancestrale voce dialettale, poteva avvenire che si srotolasse anche un sentimento più insistente, una vocazione più certa, un pungolo che si faceva bruciante.

Toccò anche a De Domenicis, ribattezzato dalla diretta voce dei suoi contemporanei Capitano Black o Pietru Lau, il destino di meritare una più larga circolazione della sua fama per via di una produzione nel dialetto locale fattasi irresistibile, copiosa e poliedrica. Tutto questo a cavallo tra i venti e i trent’anni, quando uno s’immagina che l’attività di un giovane debba essere più quella dell’avventura esistenziale che quella dello scrittore inchiodato ad una sedia in compagnia dei suoi manoscritti. Eppure a Capitano Black andò proprio così, non senza caratterizzarsi per una personalità piuttosto speciale, portata fino ai confini delle stravaganze da bohémien, tutto capovolgimento del buon ordine borghese e del retto funzionamento del formalismo sociale. I suoi contemporanei, come Giovanni Canevazzi e Sigismondo Castromediano, ce lo dipingono come una persona tutta aderente al suo mondo mentale e pochissimo preoccupata del mondo circostante, in cui regna, là dove mette mano il Nostro, la più totale confusione o la più disarmante delle trasandatezze. Però c’è dell’altro. Giacché, in fondo, cosa chiedeva Capitano Bracca (come veniva apostrofato) alla vita se non il diritto ad essere se stesso, felice dei suoi vagabondaggi da un verso all’altro, da un’osservazione all’altra della realtà circostante, da un’emozione all’altra offerta in dosi sempre nuove dall’umanità meridionale dell’ultimo scorcio dell’800? Ci sono individui che rifiutano ogni sorta di compromesso, ogni invito a sottoporsi ad ordini, leggi, regolamenti, che trovano nella confusione apparente che sembra sopraffarli uno stimolo ulteriore all’intuizione di un loro principio di bellezza.

È certo anche che Capitano Black (che evoca nel suo soprannome avventurose vicende a fumetti) non si accontentò solo di semplici esercizi lirici. La sua vena dialettale, che affonda in una tradizione molto viva, che va dal capostipite Francescantonio D’Amelio al satirico Nicola G. De Donno, predilige, anzi, le misure poematiche che svolgono un tema lungamente interiorizzato e moralmente risentito, come in Lu giudiziu universale e Li martiri de Otràntu. Nel laboratorio di De Dominicis il reagente più sensibile pare proprio la sollecitudine per il mondo offeso, l’attenzione per la sorte degli ultimi, l’intuizione che non ci può essere una pacificazione senza giustizia.

Forse sarebbe bene dichiararlo più apertamente poeta sociale, ma tutte le definizioni sarebbero limitative per una personalità che non va d’accordo proprio con imperativi di uno stereotipato ordine sociale. Figuriamoci, allora, il cammino di questo giovane nella provincia leccese di fine Ottocento. La sua attività è nota, almeno quanto il clamore dei suoi atteggiamenti e dei suoi recital improvvisati per strada. In questo egli interpreta la voce di un popolo che eleva il suo bisogno di esprimersi in una ben individuata personalità artistica senza chiedersi se la sua lingua e la sua esperienza esistenziale abbiano più valore rispetto a quella di geografie più fortunate. Molta della produzione di De Dominicis, assicurata dall’edizione Congedo del 1976, comprensiva di svariate pubblicazioni, attesta oggi, alla prova di molteplici indagini critiche, l’incontestabile originalità di questo poeta diversamente italiano.