
A dieci anni dalla morte, una rievocazione dell’immensa eredità della sua arte di Paolo Spedicato

Carmelo Bene
A Nisia, dolce sorella, che leggeva Vita di Carmelo Bene
I dieci anni che ci separano dalla morte del salentino Carmelo Bene (Campi Salentina 1937 - Roma 2002) sono un tempo molto relativo. L’uomo e il personaggio sono trasversali macchine di produzione artistica e di senso che li rende presenze atemporali: un lascito con cui avremo a che fare per molto, una fonte inesauribile di progetti, di proposte e di provocazioni. Intanto la provincia pugliese è un destino annunciato, una stella benaugurante. Terra teatrale come poche, il Salento è il luogo dei teatri greco-romani e delle scenografie barocche, rococò e liberty. La sua modernità novecentesca si esprime passando dalle opere liriche interpretate da Tito Schipa, uno dei tenori più influenti del secolo, all’Odin Theater di Eugenio Barba, versione danese e internazionale di una ricerca teatrale diversa ma parallela a quella di Bene.
Roma è la prima e definitiva uscita di Bene, la città-capitale dei più importanti circuiti culturali, dei teatri ufficiali, di Cinecittà ecc. Ma sceglie di muovere i primi passi a cominciare dalle cantine dell’off off, dei teatrini alternativi. È da lì che parte la sua rivoluzione culturale e linguistica anche contro un teatro nazionale ingessato e in parte ancora provinciale, lui un grande e geniale ‘provinciale’. Si susseguono spettacoli come Caligola di Camus (1959) al Teatro delle Arti, Pinocchio (1961), il primo Amleto (1961), Spettacolo-concerto Majakovskij (1962), Salomé da O. Wilde (1964), Nostra Signora dei Turchi (1966) e Amleto o le conseguenze della pietà filiale (da Shakespeare e Laforgue, 1967), queste ultime due pièce autentici cavalli di battaglia nel cartellone del mitico Teatro Beat 72, lo spazio alternativo di via G. G. Belli 72, a Roma, con a fianco quasi sempre Lidia Mancinelli, compagna sulle scene e nella vita, e l’amico Tonino Caputo, disegnatore delle locandine del Beat 72 e splendido protagonista del film Capricci. Tra i due maestri dell’avanguardia europea a teatro, Bertold Brecht e Antonin Artaud, Carmelo è erede di Artaud, il teorico del “teatro della crudeltà”, della discesa agli inferi della natura antropologica più intima, fino ai territori della follia e dell’inconscio umani. Con un simile bagaglio e forte di capacità istrioniche, di una “voce” fuori dal comune, e di una estetica del corpo eccessiva e espressionistica, il nostro reinterpreta liberamente secoli di letteratura teatrale, sovverte la lettura tradizionale dei classici, scopre sottotesti taciuti e libera l’immaginazione in direzione di una utopia etico-estetica, contribuendo originalmente a quella rivoluzione artistica e/o politica dei caldi anni ’60 e ’70 in Italia e nel mondo.
Recensendo il primo dei suoi cinque film, Nostra Signora dei Turchi (1968), Oreste Del Buono scriveva: “In Italia abbiamo un genio, ce lo meritiamo? Carmelo Bene, trentaduenne, meridionale, dice di essere un dissacratore. Ed è la pura verità: in questo film convulso e traboccante tutto viene furiosamente vituperato dal sensazionale istrionismo del nostro eroe. Nostra Signora dei Turchi è un titolo suggestivo, ma addirittura slavato per la materia incandescente a cui è apposto. Il punto di partenza è una meditazione su una quattrocentesca infamia turca dalle nostre parti: l’assalto alla città d’Otranto, il massacro degli abitanti, il martirio degli ottocento che non seppero buttarsi in ginocchio a impetrar pietà e cambiar fede. Il punto d’arrivo, invece, è Bene, perpetuamente sullo schermo, in ogni infamia del suo repertorio. Bene che prova a guardare attraverso le orbite di uno dei duecentosessanta credo... teschi di martiri conservati nella sua Cattedrale d’Otranto, si immagina martire, quindi, si martirizza. Bene che si fugge e si folgora. Bene che si conquista e si abbandona. Bene che si degusta e si disgusta. Bene che si esalta e si deprime. Bene che si vince e si perde. Bene che si smarrisce e si ritrova, ininterrottamente, ossessivamente, morbosamente. Bene gli altri. Gli altri Bene, s’intende”.
Nel film l’attore-regista faceva della villa moresca di Santa Cesarea, del Castello di Otranto, della Cattedrale con il celebre mosaico dell’albero della vita del prete Pantaleone (sec. XII circa), del mare blu di fronte alla Torre del Serpe, simbolo della città, altrettante metafore trasversali tra neobarocco e espressionismo, mentre lo stile alludeva e/o precedeva la scena della ricerca internazionale: il cinema underground americano (Gregory Markopoulos, Andy Warhol..., il canadese Michael Snow), il teatro di Jerzy Grotowski, il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina. Che farsene di un genio? “Un genio è inutile, ingombrante, preoccupante nella nostra stupida società, magari dannoso. Infatti non rispetta il sacro dei luoghi comuni di destra e di sinistra”, concludeva Del Buono. La questione rimase a lungo in piedi e non è mai morta del tutto. I “gazzettieri”, così chiamava i critici teatrali e i giornalisti in genere, erano l’obiettivo di infuocate polemiche e invettive. Tutta la vita egli dichiarò guerra all’establishment teatrale, dal Ministero del turismo e dello spettacolo ai circuiti dei teatri stabili. Nel febbraio del 1992 pubblicò su Il Messaggero e La Repubblica inserzioni che denunciavano l’“inqualificabile sopravvivenza del ministero”, la “recidiva ignoranza” e la “cialtroneria scorreggiona” del Teatro Stabile di Roma e degli ambienti ministeriali. Spesi in questa impresa circa duecento milioni di lire. In tribunale gli enti interessati chiesero un risarcimento di due miliardi.
Dopo aver rivisitato l’epopea otrantina con la famosa invasione dei turchi del 1480, Bene ripercorre altri temi pugliesi-salentini, ma sempre stravolgendoli o traducendoli in grandi metafore politiche, poetiche o sessuali. È il caso di S.A.D.E., ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina (1974), spettacolo in due “aberrazioni”, dialogo tra un servo masochista e un padrone. Con Giuseppe Desa da Copertino. A boccaperta, testo pubblicato da Einaudi nel 1976, il santo seicentesco che volava nel momento delle sue estasi mistiche, Bene vuole evidenziare “il progetto di una santità oltre la sconfitta nella storia e nella vita. Una divina stupidità contrapposta a quella opaca dei troppo umani” (Goffredo Fofi). Sullo sfondo sempre il Salento, quello che chiamava “il sud del sud dei santi”.
Per decenni Carmelo, il divino provinciale, aveva dialogato con la grande cultura internazionale, soprattutto francese, la cui lingua aveva appreso ancora adolescente al liceo classico dei padri dell’Istituto Calasanzio nella natia Campi: Salvador Dalì, Gilles Deleuze, Pierre Klossowski, Jean-Paul Manganaro, Camille Dumoulié... La rivoluzione a teatro e la rivoluzione culturale operata da Carmelo Bene sono un lascito sconfinato di cui siamo custodi e immeritevoli eredi. Che farsene di un genio? Gli epigoni ringraziano, mentre ripercorrono le tracce del suo lavoro infinito di amore e distruzione.