
In quelle case bianche la metafora di un Sud calcificato Tormentato, polemico, appassionato, il poeta leccese, che da giovane aderì al futurismo, ha lasciato i versi più incisivi e intensi che siano mai stati scritti sul Salento. Dal 2010 le sue spoglie riposano nel cimitero di Lecce di Sergio D’Amaro

Vittorio Bodini (1914-1970) nel suo studio, in una curiosa espressione mentre osserva un'opera che lo ritrae. Foto gentilmente concessa da Besa Editrice
Possiamo parlare, a proposito di Bodini, di un poeta in fuga? Certo, più cautamente, si potrebbe parlare di un uomo in esilio dal suo tempo e dal suo luogo, alla costante inquieta ricerca di una sua dimensione che non coincide né col passato né davvero col futuro. Quando ancora diciottenne aderisce al futurismo, vi è portato dalla foga di voler fuggire un destino che gli sembra subito estraneo, chiuso com’è nella ripetitività secolare di un mondo adagiato nella sua vischiosa stasi. Sono di allora le prime prove poetiche, e si può arguire che un giovane appena uscito dall’adolescenza voglia proiettarsi nella vita con un corredo più ampio di sensazioni e di intenzioni. La provincia lo soffoca, gli pare di essere rinchiuso “come perle nell’ostrica”. Quando più tardi scriverà “Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado” vorrà riferirsi molto probabilmente ad una condizione esistenziale di fondo, in cui il soggetto si è assimilato così intimamente alla realtà circostante da esserne consustanziale e legato ad un destino che pare perdente, calcificato come quelle case bianche già tanto surreali.
Quando poi si trasferisce a Firenze per gli studi universitari, avviene l’incontro con l’ermetismo. È la palestra d’un io insulare, d’un io posto di fronte al suo enigma, ma è anche il preannuncio di un’altra eticità, specie nell’impatto più duro e decisivo con la guerra. “La brevità della mia esperienza ermetica – ha scritto Bodini – mi lasciava libero di cercare alla fine dello sfacelo nazionale un’altra via, un altro linguaggio poetico”. Già allora, aderendo al Partito d’Azione e a Democrazia del Lavoro, il Sud gli si faceva diverso e l’antico rifiuto della sua maledetta aiuola diventava più sfumato e arricchito di pensosità, meno reciso, meno viscerale. Decisivo si rivelò poi il soggiorno in Spagna, tra il 1946 e il 1949. Attenendosi a versi divenuti celebri – “Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa” – Bodini riconobbe nella civiltà mediterranea del paese iberico il suo stesso Sud, rivelatosi spazio universale, terra altrettanto degna di esprimersi in immagini inusitate. Bodini fu sorretto in questo da una visione surreale, carica di accesi colori barocchi e di un humus nutrito di linfe polemiche e di denuncia. Erano anni di ricostruzione, di tormentata ripresa civile, di riadattamento alla democrazia. Il Sud di Quasimodo, C. Levi, Jovine, V. Fiore, Francavilla si caricava di una tensione che non poteva più contenersi in una dimensione ermetica e neorealista. La “visioni” di Bodini diventavano pregne di sofferenza storica, portavano il peso di un Sud che non era stato vinto, ma che neanche aveva vinto. Cosa significava quel titolo, La luna dei Borboni? Non era forse la consapevolezza che, malgrado tutto, dal Risorgimento alla riforma agraria, il Sud era rimasto regione subordinata e che, cambiando ogni cosa, esso gattopardescamente restava, nulla veramente cambiando, uguale al passato?
Al di là della loro geografia, il Sud, il Salento, Lecce e il suo barocco, diventavano in realtà proiezioni esistenziali. Non rifiuto, né timore di un contagio pessimistico, il Sud di Bodini si articolava in dinamiche e anche drammatiche contraddizioni dialettiche, si elevava a simbolo di un’umanità ritratta in una sorta di storia eterna. In realtà, non serviva più fuggire perché dappertutto la condizione umana è la stessa. Lo testimoniano i testi anche un po’ più misteriosi di Metamor, appartenenti all’ultima stagione di Bodini a Roma. C’è come uno smarrimento, un disorientamento di fronte alla deflagrazione del boom economico, di fronte alla perdita del centro. La globalizzazione, l’americanizzazione segmentano la coscienza, la fanno oscillare: gli antichi spazi, le antiche terre rischiano di dissolversi.
Da Roma, alla fine del 2010, Bodini è tornato per sempre alla sua Lecce, a quarant’anni dalla morte che lo colse appena cinquantaseienne. È come se si fosse riconciliato con quel suo primitivo, arso senso del Sud, da cui era sgorgata l’intuizione fondamentale del mondo. L’immagine emblematica della sua poesia rimane scolpita nei già citati versi giovanili, che ora stanno ad epigrafe sulla sua tomba: “Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado”.