Scapece. Foto di Dario Ersetti
Federico II Hoenstaufen, stupor mundi, quando veniva nella sua amata Puglia, faceva scorpacciate di foglie mischiate, erbe spontanee di campagna usate ancora oggi. Un altro piatto che gli piaceva, tanto da non farlo mai mancare alla sua corte, erano le anguille del lago di Lesina, nel Gargano conservate sott’aceto.La conservazione degli alimenti (verdure, pesce, carne) per mezzo dell’aceto, è un procedimento conosciuto fin dall’antichità, descritto anche dal romano Marco Gavio Apicio, che ne è addirittura indicato come inventore (Ut pisces fricti diu durent: eodem momento quo friguntur et levantur ab aceto calido perfunduntur. Se vuoi conservare i pesci cospargili di aceto caldo dopo averli fritti). E forse proprio da “esca Apicii” (cibo di Apicio) il procedimento è chiamato “scapece” nel Sud Italia, “scabeccio” in Liguria e in Piemonte, “escabeche” in Spagna e “askipeciam” da Federico II nell’ordine da lui fatto a Riccardo di Pucaro della Curia di Foggia il 28 marzo 1240. Mentre è chiamato “carpione” nel Nord Italia, “saor” nel Veneto e “aspic” in Francia.
Oggi che si hanno a disposizione altri metodi di conservazione l’uso dell’aceto è limitato a ricette estemporanee, come le zucchine alla poverella pugliesi e di tutto il Sud Italia, le sarde in saor veneziane, di cui tra l’altro si rivendica la matrice ebraica da David de Pomi nel suo Ricettario Ebraico edito a Venezia nel 1575. Fra tutto questo fa eccezione la scapece gallipolina, che ha conservato lo spirito di quando è nata e cioè poter semplicemente conservare il pesce.
Il monopolio della produzione gallipolina della scapece è detenuto da poche famiglie, forse una decina, discendenti da generazioni di scapeciari. La vendita avviene esclusivamente nei mercati salentini. La ricetta è rimasta rigorosamente uguale nel corso degli anni. I componenti sono pesci di piccola taglia e di vari generi, che cambiano in base alla stagione, pupiddhru (zerro), mascularu (garizzo), minoscia (latterini), ope (boghe), puliti togliendo loro la testa e le interiora e poi infarinati e fritti, pane di grano duro seccato e grattugiato rigorosamente a mano per evitare il surriscaldamento che porterebbe alla sua fermentazione, aceto di vino rosso decolorato mescolandolo a della farina e poi travasandolo parecchie volte fino a renderlo limpido, e per finire degli stimmi di zafferano, oltre a un po’ di sale. Il procedimento successivo consiste nel creare uno strato di pesce allineato perfettamente sul fondo di una caletta, che è un mastello di legno di castagno con una spina per il drenaggio alla base, creare uno strato di pane grattugiato, un altro di pesce, e così via, per finire con uno di pane. Riempire la caletta con l’aceto e coprire con un pesante coperchio di legno che manterrà compressa la preparazione. La scapece è pronta dopo pochi giorni e può essere conservata a lungo, il che è proprio lo scopo della preparazione.
A Vasto, in Abruzzo, si usa una scapece più ricca, perché prevede l’uso di pesce palombo e di razza oltre a molluschi e pesce di scoglio. I pesci, a pezzi, vengono infarinati e fritti e poi sistemati a strati in un barile. Ogni strato è ricoperto da aceto bollente di vino banco colorato con zafferano, spruzzato con un po’ di vino Trebbiano d’Abruzzo e ricoperto da cipolla soffritta. Si ritiene che che la tradizione di Vasto derivi direttamente dall’antica Roma, poiché molte famiglie vastesi avevano casa anche a Roma. Negli Statuti di Ottone I del 973 si recita “Che nisuno venda pescio salato se non è stato quattro dì in salsa”. Da moltissimi anni e fino al 1840 l’acetificio Molino produceva notevoli quantità di scapece che esportava in tutta Italia.
A proposito dello zafferano, ricordiamo che il migliore è quello persiano, anche se quello di Navelli, in Abruzzo, è molto buono. In Salento la sua produzione è cessata nell’Ottocento, ma in Puglia da qualche anno è ripresa timidamente a Deliceto, nel Foggiano.
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