Troi foja de cicore catalogne
[Quando credi di dover mangiare lasagne
ti trovi nel piatto foglie di catalogna]
(Salento) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Il senso di questo proverbio moraleggiante è all’incirca “tienti pronto alle delusioni: quando pensi di avere finalmente avuto fortuna può accadere che ti trovi improvvisamente in rovina”. Proviamo a spogliarlo delle metafore e a fermarci sul significato letterale. Gli elementi centrali sono due: le sagne e le cicore catalogne. Il significato morale si può cogliere solo se si condivide l’informazione sottintesa che le sagne sono cibo pregiatissimo e le cicore cibo miserrimo.
Lo stesso gioco si può fare con tanti altri proverbi, che presi alla lettera ci rivelano molto della cultura alimentare del popolo pugliese, nei secoli passati.
Diciamo subito che la fame era IL problema, che aveva dimensioni per noi inimmaginabili. I più poveri non disponevano neppure di un orticello e non potevano permettersi di allevare animali da cortile, maiali o pecore, e si accontentavano dei prodotti della natura: fave, cicorie, bacche, fichi, e in generale di tutto ciò che cresceva spontaneamente ed era commestibile: Robba ca è fatta Diu / mangia tu ca mangiu iu (Roba che si trova in natura, roba di Dio / mangia tu che mangio io); La salute cu nc’essa / ca cu ppane e zzanguni tiramu nnanti (Che ci sia la salute / ché con pane e ‘zanguni’ – in italiano sonco, o cicerbita – tiriamo avanti). Ogni erba commestibile va bene per riempirsi la pancia, basta condirla con olio e sale: Oju e ssale / ogn’erva vale. Del resto la creatività gastronomica fa di erbe spontanee dei piatti gustosi, grazie all’impiego di ausili – erbe e condimenti – altrettanto poveri. La paparina (‘papavero rosolaccio’) è un’erba spontanea che cresce in quantità nei campi incolti, è addirittura infestante; ma saltata con aglio, olive nere e peperoncino dà luogo alle paparine ‘nfucate, tanto gustose che oggi sono cibo ricercato della cucina ‘povera’ (o finta-povera). Questa ricetta prevedeva anche l’erba pazienza (Rumex patientia), in dialetto lapazzu; e un noto proverbio magnificava gioiosamente questo accostamento così: La paparina senza lu lapazzu / cci mme la fazzu, cci mme la fazzu? (Il papavero senza il lapazio / che me ne faccio, che me ne faccio?). Come se si trattasse dell’intingolo più raro e prezioso.
Il villano si accontenta: Fae, foje e mmieru / lu villanu se sente an celu (Fave, verdure e vino / il villano si sente in cielo).
Ma semi ed erbe non bastano: servono carboidrati e proteine. I primi si procurano con il pane, che occupa un posto centrale nell’alimentazione (e nei proverbi di argomento alimentare): Mmacari ca mangi mile e ccirase / mmar’a dda ventre ca pane nu ttrase (Per quanto tu mangi mele e ciliegie / guai a quel ventre in cui non entri pane).
Per le proteine, ahimè, sono dolori. La carne è un bene preziosissimo, al quale si può pensare solo in occasioni solenni: Pe llu capucanale / pane, carne e mmieru a vvoluntà (Per il banchetto di fine d’opera / pane, carne e vino a volontà); Duminica su ’lle Parme / l’autra duminica, Pasca e ccarne (domenica son le Palme / la domenica dopo, Pasqua e carne). La carne è il sogno del bracciante e del contadino. E il ‘sogno proibito’ è un concentrato di proteine: il maiale.
Avere un maiale vuol dire avere di che sfamarsi per un anno intero, e al meglio. È il massimo: più che farsi il pane in casa, più che fare l’amore: Ci face pane, sta bonu na simana / ci se nzura nu mese / ci ccite lu porcu, n’annu (Chi fa il pane sta bene una settimana / chi si sposa sta bene un mese / chi ammazza il porco sta bene un anno).
È la piramide dell’alimentazione: in basso le erbe e i prodotti spontanei della terra, più in alto i piatti via via più elaborati, ma poco cari, e il pane; al vertice la carne. È anche la piramide dei bisogni e dei desideri: in basso la misera realtà quotidiana, in alto il Paradiso, irraggiungibile. E pazienza se non coincide con una nobile creatura. La fame è fame.