ma la tabbacchére ne nla tuqquéme
[Giochiamo e scherziamo
ma la tabacchiera non la tocchiamo]
(Puglia settentrionale) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Questo proverbio richiede qualche spiegazione, specialmente per i lettori più giovani. La tabacchiera era una scatoletta tascabile, che conteneva tabacco da fiuto. In epoca di tabagismo imperante – in tutte le classi sociali, anche se, naturalmente, con tabacchi di ben diverso pregio – la parola evocava dunque l’immagine di una piccola scatola dal contenuto piacevole. Di qui il passaggio metaforico a ‘organo genitale femminile’ (agevolato anche dal fatto che il piacere del tabacco era tipicamente ed esclusivamente maschile). Il proverbio dunque prescrive che le effusioni amorose tra fidanzati non superino i limiti di quello che una volta si chiamava ‘petting’.
Il concetto è espresso – più brutalmente – anche da un altro proverbio, del Foggiano: “Pìzzeche e vvase non fàscene pertuse” (Pizzicotti e baci non fanno buchi) che nella variante salentina diventa ancora più esplicito: “Pizzichi e vvasi nu ffannu pertusi, manu ca lluscia nu fface criaturi” (Pizzicotti e baci non fanno buchi, mano che accarezza non fa bambini). Sembra lo stesso proverbio, ma fra le tre varianti c’è una differenza, anche significativa. La prima ha un respiro etico (il piacere ha come limite la morale), la seconda rinvia alla considerazione sociale (rischiare di perdere la verginità può causare danni gravissimi all’immagine della ragazza in società), la terza sembra impostare il problema della contraccezione (se ti limiti a baci e carezze non corri il rischio di una gravidanza).
Queste tre modalità con cui si presenta lo stesso proverbio sono lo specchio fedele delle molte anime dei proverbi, o meglio dell’etica dei proverbi: di quelli pugliesi perché di quelli ci occupiamo, ma in realtà di tutti quelli che circolano, o circolavano, in Italia.
Nel ‘rispetto della tabacchiera’ c’è il saldo ancoraggio alla versione più gretta della morale cattolica, che nell’Otto e Novecento era più rigida e bacchettona di oggi: sino alla metà del secolo scorso la verginità era considerato un valore in sé e per sé, in grado da solo di dare della donna un’immagine angelica o demoniaca, e la donna era condotta a vivere il rapporto d’amore tra colpevolizzazioni, timori, rinunce, frustrazioni, cadute di autostima, nel solco della logica integralmente maschilista dell’epoca. L’organo sessuale femminile era il simbolo del male.
Da questa rigida morale derivava il ruolo centrale ricoperto dal controllo sociale, che aveva come strumento fondamentale il pettegolezzo e come principio ispiratore l’insieme dei precetti diffusi dall’educazione e dal ‘comune sentire’. Ai proverbi era affidata proprio la conferma e la diffusione di questi precetti. Ed ecco la preoccupazione che nelle effusioni amorose non si producesse il temuto ‘pertugio’, che: a) avrebbe violato uno dei punti cardine della morale; b) avrebbe nuociuto gravemente alla reputazione della fanciulla.
Ma il proverbio nasceva anche dalla vita di tutti i giorni, dai problemi basilari: la fame, la sete, il lavoro, le bocche da sfamare. E a volte capitava che parlasse una lingua diversa da quella del curato, o delle beghine. Così, nella variante salentina, quella che sembra prevalere non è una preoccupazione di tipo etico, ma la preoccupazione di una gravidanza indesiderata, che porterebbe a una nuova bocca da sfamare. In definitiva, il pur confermato divieto trova una motivazione molto laica, e si accompagna con un’esplicita tolleranza – anzi un incoraggiamento – nei confronti di pratiche amorose prive di rischi.
Tre varianti dello stesso proverbio, tre prospettive in parte diverse ma coesistenti sulla morale, sulla società, sull’esistenza, che coesistono in modo assolutamente non conflittuale. Forse è proprio in questa capacità di riflettere la molteplicità e l’infinita contraddittorietà della vita una gran parte del fascino dei proverbi dei nostri nonni.