bisogna soffrire Ci cammina taue taue
va alla casa tu tiaue
Ci cammina spine spine
va alla casa du Bommine
[Chi cammina tavola tavola (“comodo comodo”)
va alla casa del Diavolo
Chi cammina sulle spine
va alla casa del Bambino]
(Salento) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Proverbio di una certa raffinatezza metrica: non solo è formato da due coppie di ottonari a perfetta rima baciata (aabb) ma ogni verso è articolato su due parti ritmicamente identiche – con l’accento sulla prima e sulla terza sillaba – e inoltre la prima parte si ripete identica a versi alterni (Ci cammina nei versi 1 e 3, va alla casa nei versi 2 e 4).
La tecnica dell’accostamento di due parti metricamente identiche a formare un unico verso e dell’alternanza ritmica di parti identiche è antichissima: di certo si trova nella poesia latina e in quella greca (dove godeva anche di una terminologia specifica: ognuna delle due parti del verso si chiamava colon), ma questo non vuol dire che il nostro proverbio sia così antico. O meglio, dobbiamo pensare a due storie sfasate nel tempo: lo schema metrico-ritmico, che costituisce la struttura portante del proverbio, e che può essere più antico, e il contenuto, molto probabilmente ben più recente.
Come per la poesia, sia lirica che epica, anche per il proverbio la versificazione classica era la forma, lo stampo, e il contenuto era l’impasto plasmabile che vi si immetteva di volta in volta. Lo schema rimaneva pressoché invariato nel tempo, mentre il messaggio rifletteva il clima culturale ed etico corrente. In altre parole, per il proverbio lo schema di default è: involucro antico, contenuto (relativamente) recente.
Anche linguisticamente il proverbio è interessante: a parte il raro Bommine ‘bambino’ (sollecitato dalla rima con spine), si fa notare l’espressione spine spine: non la trovo attestata come tipo sintattico ma è di significato trasparente. È facile pensare a una creazione estemporanea guidata: la ripetizione spine spine è sicuramente sollecitata dalla ripetizione taue taue, e sfrutta una risorsa specifica dei dialetti salentini, nei quali la ripetizione è molto presente, con diverse funzioni: di rafforzamento (rende il superlativo assoluto: la ricotta era fresca fresca), di iterazione (a chianu a chianu lu sta facimu ‘lo facciamo un po’ per volta’), di prossimità (caminava pareti pareti ‘camminava lungo il muro’), ecc. Nel nostro caso rende l’idea di prossimità, ma anche di ripetizione, ‘inventando’ secondo una modalità specificamente salentina.
Quanto al contenuto, è profondamente permeato di religiosità cristiana. Lo attesta non solo la contrapposizione tradizionale – soprattutto nella narrazione per bambini – tra il Bambino Gesù e il Diavolo, simboli rispettivamente della salvezza e della dannazione eterna, ma soprattutto il rilievo che si dà all’etica della sofferenza, della rinuncia, del sacrificio.
Qui non si tratta della sofferenza fisica e del suo significato, ma di una concezione della vita (e del lavoro) basata sul sacrificio personale: soffrire – meglio ancora, cercare la sofferenza – è infinitamente più meritorio che vivere comodamente; ‘camminare sulle spine’ porta al Paradiso, mentre ‘camminare comodi comodi’ porta all’Inferno.
La civiltà che si riflette nei proverbi è intrisa di questa mentalità. E questa visione non si trova solo nei proverbi pugliesi ma nella maggior parte dei proverbi di quasi tutte le aree d’Italia: la cultura popolare esalta la sofferenza, il sacrificio, il dolore, cristianamente considerati viatici indispensabili per l’aldilà: “Soffri il male e aspetta il bene”, “Soffri e taci, ogni cosa ha fine”, “Non v’è mal che non finisca, se si soffre con pazienza”, “Vince colui che soffre e dura”, “Col soffrire s’acquista”, ecc. ecc. Un’etica del dolore, anzi della sofferenza, che molti riconducono alla teologia del peccato originale e che ha conosciuto periodi in cui la rinuncia, la sofferenza, il sacrificio godevano della massima considerazione: l’alto Medioevo, il dopo-Concilio di Trento.
Sarà un caso, che l’oblio dei proverbi abbia avuto una brusca accelerazione proprio negli anni Ottanta del Novecento, quando raggiunse il massimo del suo splendore l’etica del consumo, del salutismo, dell’edonismo?