Questo è l’amore U primm’anne a ccore a ccore
U secunde a ccule a ccule
U terz’anne a ccalge n gule
[Il primo anno cuore a cuore
Il secondo culo a culo
Il terz’anno a calci in culo]
(Area barese e Puglia settentrionale) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Il lettore non si stupirà del linguaggio crudo. La cultura popolare non conosce le mille ipocrisie della cultura borghese e, ancor meno, di quella aristocratica: chiama ogni cosa con il suo nome, essendo pressoché immune dal tabù che nella società moderna censura la ‘parolacce’ (i termini che designano i bisogni corporali, quelli che rientrano nella sfera sessuale e, per buona parte, quelli della sfera religiosa). Del resto, ad essere sinceri, se si cerca un’espressione da contrapporre a ccore a ccore, a ccalge n gule è ben più espressiva dell’educato ‘a calci nel sedere’ o ‘nel posteriore’. Anche la poesia ne guadagna, in fondo.
Il nostro proverbio traccia la storia di un’unione infelice in tre versi fulminei, che identificano tre momenti cruciali del rapporto: quello della passione (ccore a ccore), della prima fredda ostilità (a ccule a ccule) e dell’avversione (a ccalce n gule). Siamo nel regno degli stereotipi, che costituiscono il brodo di cultura dei proverbi. Il messaggio è trasparente: è l’invito a non farsi illusioni sulla vita matrimoniale, a considerare effimero il piacere della vita a due, ad aspettarsi che l’amore bruci rapidamente e lasci freddo e cenere, che la passione si trasformi ben presto in odio rancoroso. Sullo sfondo, come quasi sempre, la misoginia, e un pessimismo appena attenuato da un ‘carpe diem’ senza speranza.
Un messaggio così intriso di negatività, tuttavia, è trasmesso in modi tutt’altro che cupi. La scelta lessicale, anche se è meno sboccata di quanto sembrerebbe a noi, è allegra e disinvolta, il ritmo è molto vivace (si tratta di una terzina, formata da tre ottonari, e l’ottonario è il verso tipico della lirica popolare: ritmato, semplice, di facile memorizzazione), le immagini evocate sono di un realismo fortemente icastico (due culi, un calcio nel sedere), un po’ deformante un po’ irridente. La vita, insomma, è triste ma va vissuta con disincanto: se l’intreccio è drammatico la narrazione sia brillante, se possibile allegra.
Il lettore avrà notato che l’effetto-allegria, nel nostro caso, è ottenuto con l’impiego di un mezzo stilistico tipico dei proverbi e dei motti: la struttura a ritmo ternario. Tre è infatti la cifra stilistica della terzina.
Tre sono i versi, tre le coppie di parole bisillabe che concludono ogni verso, in perfetta identità metrica e ritmica (ccore a ccore, a ccule a ccule, a calge n gule). E per quanto riguarda i fatti evocati, tre sono gli anni presi in esame (u primm’anne, u secunde, u terz’anne), tre sono i sentimenti sotto osservazione (la passione, il distacco, l’avversione). E tre – a ben vedere – le prospettive, tutte diverse: quella dell’innamorato, che conosce solo il linguaggio della passione, quella del disamorato, che conosce solo il linguaggio dell’odio, e quella del grande saggio, che sa come vanno le cose nel mondo e da lontano dispensa le sua perle di saggezza.
Siamo nel pieno di quella che è stata definita la fascinazione del numero tre. Questo espediente stilistico, come si è già notato altrove, è frequentissimo in area pugliese: per fare un esempio, limitandoci alle occorrenze delle parole che designano i numeri dal tre al sette, nella raccolta di proverbi di Nicola De Donno le occorrenze sono queste: il numero tre ricorre 131 volte, il quattro 41 volte, il cinque solo sette volte, il sei 13 volte e il sette 33 volte. In linguaggio calcistico si direbbe che non c’è partita: tre su tutti.
Del resto la dislocazione del testo e dei contenuti su tre piani è così frequente che per i nostri proverbi gli studiosi parlano di ‘struttura triadica’ e per spiegare la ‘fascinazione del tre’ chiamano in causa persino il subconscio collettivo. Sarà, ma forse, per spiegarla, è sufficiente ripercorrere i sentieri della storia letteraria e ricordare la triade strofica del coro greco classico, praticamente immutata da Stesicoro in poi. Dalla poesia greca antica alla tradizione popolare dell’Italia meridionale (per lunghi secoli di cultura greca): una trafila forse non documentabile ma certo plausibile.
Ancora una volta, un proverbio della nostra regione è portatore di informazioni preziosissime su tanti piani: storico, antropologico, metrico-stilistico, linguistico, letterario, persino psicanalitico. E conserva tuttavia un pizzico di mistero.