Anche lo Stato dovrebbe considerarla Sparagna la farina,
quannu la mattra è china,
ca quannu lu funnu pare
nu te serve lu sparagnare
[Risparmia la farina / quando la madia è piena / ché quando vedi il fondo / non ti serve più risparmiare]
(Salento) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Siamo ai princìpi fondamentali dell’economia domestica. La scena è quella di una casa di campagna tradizionale dell’area mediterranea. In primo piano il mobile che ha caratterizzato per tanti secoli l’ambiente in cui si cucinava e si mangiava: la madia. Per i più giovani – che non la conoscono più o ne conoscono le varianti moderne, molto lontane dall’originale – era un mobile di legno, a forma di cassone a tronco di piramide rovesciato, spesso dotato di cassetti e sportelli, usato sia per impastare che per conservare farina, lievito e altri generi alimentari. La madia era in un certo senso il cuore della casa, perché lì si accumulavano piccole riserve da utilizzare in caso di necessità.
Il nostro proverbio considera proprio questa funzione tesaurizzatrice, ed esorta a un risparmio non occasionale ma programmato, distribuito nel tempo in modo da far durare le riserve a lungo. Meglio un risparmio pianificato e costante che lo sperperio sconsiderato, che costringe ben presto a raschiare il fondo, e subito dopo a soffrire la fame.
Fin qui abbiamo l’impressione di trovarci davanti a una delle tante manifestazioni del ‘buonsenso’ che si attribuisce al contadino, prudente tesaurizzatore dei suoi sudati risparmi: e viene in mente lo stereotipo dell’uomo di città, emancipato e scaltro, che deride il contadino perché è troppo prudente nel maneggiare i suoi risparmi, perché non corre il rischio di investirli per farli fruttare, perché non ha il coraggio di rinunciare al risparmio, di indebitarsi magari per ‘far girare l’economia’, per agevolare il consumo, per stare meglio.
Ma ci sono altri proverbi, della stessa area, che non confermano affatto questo stereotipo. Uno recita “Ci stae a casa tira fiche te la capasa”. Siamo nella stessa area e nella stessa matrice culturale: in una società povera che, per avere certezza di poter sopravvivere alle stagioni morte e ai raccolti disgraziati, fa grandi scorte di fichi secchi, che impila nelle capase (i grandi vasi di terracotta adibiti appunto a conservare fichi, frisedde, acqua, olio ecc.). Questo proverbio è, in certo senso, complementare rispetto al precedente. In termini economici si può dire che in quello si orientava alla pianificazione del risparmio, in questo all’incremento delle entrate: se stai a casa devi attingere alle scorte, che ben presto finiranno. Dunque – è l’esortazione implicita – esci, datti da fare, procurati nuove entrate.
Sono due facce della stessa medaglia, le due gambe su cui si regge un’economia sana: gestire il risparmio, assicurare flussi significativi di entrate. A noi italiani queste frasi suonano famigliari: richiamano alla memoria l’angosciosa ossessione di questi ultimi anni, il disavanzo dello Stato e il rapporto deficit/PIL.
E a pensarci bene, fatte le differenze di scala, non c’è poi molta differenza fra uno Stato che spende e spande allegramente, senza preoccuparsi del futuro (tipo l’Italia degli anni Ottanta), e un contadino che attinge a piene mani alle riserve della sua madia, senza pensare al domani; fra uno Stato che, dopo aver dilapidato il patrimonio e fatto montagne di debiti, ha il problema terribile di fare entrare soldi freschi per far ripartire l’economia e il contadino che, avendo già eroso il suo piccolo gruzzolo, vede il fondo della sua madia, e si rende conto – troppo tardi, ahimè – che in tempi di vacche grasse avrebbe fatto meglio a moderare le uscite e a procurarsi cibo e denaro. In termini macroeconomici, a raffreddare il rapporto fra deficit e prodotto interno lordo, moderando il primo e incrementando il secondo.
Chissà se i nostri decisori economici, oltre che su Keynes, sul deficit spending e sulla teoria della crescita, avessero meditato anche sui proverbi su cui si basavano i nostri e i loro nonni analfabeti…