[Vai da chi ha patito e non da chi fa il saputo]
(Bari) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Con il proverbio del mese scorso abbiamo introdotto il discorso delle malattie che colpiscono l’uomo. Ammalarsi è sempre stata una grande iattura: la medicina era un’arte molto approssimativa, e troppo spesso la malattia era l’anticamera della morte. Per contrastarla, la saggezza popolare ha elaborato una serie di precetti, fra superstizione e religione, fra scienza e tradizione, che nell’insieme costituivano, più che un ricettario, un robusto viatico morale per affrontare disagi, pericoli e rischi della malattia. Questi precetti erano organizzati in proverbi, detti, massime, per lo più in forma ritmica o metrica, che ne hanno agevolato la trasmissione orale di generazione in generazione, sino (quasi) a noi.
Nell’area pugliese questo compito formativo era affidato a tre tipi di testo di tradizione orale:
- le sentenze morali, che comprendevano regole generali di comportamento e ‘filosofie di vita’;
- i precetti e i consigli operativi, di carattere sanitario: riguardavano stili di vita, scelte e regimi alimentari;
- scongiuri, formule scaramantiche, preghiere (e intimazioni): formule antichissime, nate e diffuse prima non solo dell’affermarsi del metodo scientifico ma anche dell’affermarsi del cristianesimo sulle credenze pagane.
Rientrano nella prima categoria proverbi etico-esistenziali come Mègghie ricche de carne ca de terrìse, “Meglio ricco di carne (= salute) che di denaro”, o l’equivalente La pelle iè nnumere iùne, “La pelle è il numero uno (= la vita innanzi tutto)”, o ancora La salute se chjange acquanne se pérde, “La salute si piange quando si perde”. Oggi, più che proverbi, le definiremmo perle di saggezza popolare. Sono tanto penetrate nella nostra cultura di base che ci sembrano ovvietà, vuote formule retoriche (se poi ci fermiamo a riflettere scopriamo che ovvia è la formulazione, mentre il contenuto, cioè il messaggio, è ancora oggi tutt’altro che ovvio e condiviso).
Il proverbio di cui parliamo oggi appartiene alla seconda categoria, ma contiene anche tracce evidenti di una ‘filosofia di vita’. Dà un’indicazione operativa: quando ci si ammala è meglio evitare di ricorrere al medico, che fa tanto il saputo ma ne sa molto meno di chi quel male lo ha vissuto e superato. Meglio ricorrere a un praticone che a un saputone. È un’indicazione concreta, ma si basa su una diffidenza (un pregiudizio?) nei confronti della ‘sapienza’ dell’uomo di scienza, che ha radici culturali profonde e motivazioni storiche precise. La prima motivazione è tecnica: l’insufficienza della medicina, che solo nel tardo Ottocento pone basi propriamente scientifiche al suo operare ed è perciò – prima di quel periodo – approssimativa, limitata, artigianale, tanto da subire la concorrenza effettiva e spesso vincente di saperi antichi e ben sperimentati: l’erboristeria medica, la dietetica ‘ingenua’, le tecniche che oggi chiameremmo di training autogeno. La seconda motivazione è sociale: il medico parla il latinorum delle classi dominanti, e il ‘villano’ diffida del parlare esoterico, ben sapendo che – nel rapporto fra classi sociali – nasconde la trappola dell’inganno e della sopraffazione. Diffida della prosopopea del medico-santone, perché usando parole misteriose e pozioni strane egli sembra detenere il potere ‘magico’ di modificare il corso naturale degli eventi, e questo dà al suo intervento un alone inquietante di stregoneria e di mistero. Soppesando i pro e i contro, sembrano più affidabili i suggerimenti dell’esperienza che quelli della sapienza.
Cose da medioevo? Mica tanto. Oggi, 2013, quanti di noi ‘evoluti e colti’, alla ricerca della terapia più adatta per affrontare una malattia seria si affidano al consiglio dell’amico o del lontano parente che “ci è passato”, oltre a (e spesso piuttosto che) seguire le prescrizioni del medico? Meglio ancora: quanti postano una richiesta di consiglio su Facebook, su un blog, su un forum, e aspettano con ansia il consiglio di “chi ha patito”? Domandona finale: siamo proprio tutti convinti che “u sapute” sia sempre più affidabile che “u patute”?
Sono/siamo i nipotini dei ‘villani’ analfabeti che non conoscevano leggi e regolamenti ma solo la pratica del buonsenso e dell’esperienza, magari filtrati dai proverbi e dai motti degli antichi. Abbiamo rifiutato i proverbi e i motti ma noi, in fondo, non siamo cambiati di molto. Nonostante la nostra prosopopea.