ti tutti tiémpi, méti
[L’avvocato è come il prete / in tutti i tempi miete]
(Taranto) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Nei mesi scorsi abbiamo commentato alcuni proverbi che disegnavano in controluce la mappa del potere in una società pre-moderna, disegnando il profilo dei potenti visti dal basso, dagli strati più poveri e indifesi della società. Abbiamo trovato il papa e il re, lontani e astratti detentori di potere, e lu patrunu, concreto e vicino padrone con cui il contadino aveva a che fare nella vita di tutti i giorni.
Il proverbio di questo mese individua altre due personificazioni del potere, anch’esse concrete e reali, due pilastri della vita sociale: il prete e l’avvocato. Queste figure, nella cultura popolare, sono circondate da un’aura di grande prestigio ma anche di inquietante mistero: l’una è figura di mediazione fra il mondo reale e l’aldilà – il mondo degli angeli e dei demoni, delle preghiere rituali e dei castighi terribili –, l’altra è figura di collegamento fra il mondo dei fatti nudi e crudi e il mondo misterioso delle parole ‘di scuola’: parole che possono cambiare la vita, portare il bene o il male anche in forma estrema. Uno è l’espressione della legge divina, l’altro della legge terrena, e per questo sono rispettati e temuti, amati e odiati.
A ben vedere, la figura del prete, in molte culture popolari, si avvicina a quella dello sciamano, per la misteriosità delle sue formule magiche, la complessa ritualità dei suoi simboli esoterici, dei gesti ieratici, delle vesti cerimoniali così lontani dai simboli dalla gestualità e dal vestire della vita ordinaria, per il riferimento costante a divinità misteriose (se non misteriche) e potentissime. Anche la figura dell’avvocato è circondata da un’aura misterica: anche lui usa parole ‘magiche’, incomprensibili, si esprime per formule e rituali, esercita con tocco e toga, fa riferimento costante a una terribile tavola delle leggi… Nella più positiva delle raffigurazioni ha la fisionomia del manzoniano Azzeccagarbugli: giocoliere delle parole (le parole della furbizia e dell’imbroglio, il latinorum che confonde), sempre schierato dalla parte dei potenti.
Da questo sospetto latinorum e da questa costante alleanza coi potenti nasce la diffidenza di fondo per queste due figure, che della comunità conoscono tutti i segreti ma non ne sono mai percepiti come membri ‘alla pari’.
Ed è così che, in molte rappresentazioni popolari, prete e avvocato sono figure assolutamente negative, come nel nostro proverbio. Agli occhi smagati del contadino l’esperienza quotidiana la vince sul fascino dei cerimoniali liturgici e avvocateschi: vede che i suoi miseri guadagni sono soggetti ai capricci delle stagioni e delle annate, sono occasionali e saltuari, a volte ridotti a niente, mentre il prete con le elemosine e le donazioni, l’avvocato con le sue parcelle salate si assicurano introiti robusti per tutto l’anno. Il contadino miete una volta all’anno, il prete e l’avvocato tutto l’anno.
Altro che figure ‘superiori’! L’avvocato può mandarti addirittura in rovina: un altro proverbio recita: “A cci vè ddò l’abbucatu / pérdi l’ùrtumu tucatu” (Chi va dall’avvocato / perde anche l’ultimo ducato). Per il prete va anche peggio, perché la cultura contadina, quando si tratta di figure ostili, non conosce leziosità né gentilezze d’animo: un proverbio calabrese – conosciuto in varianti diverse anche altrove – sentenzia addirittura: “Priéviti, muénici e ppàssili / càzzili lu capu e llàssili”, ovvero “Preti, monaci e passeri / schiacciagli la testa e lasciali”.
Una volta lo chiamavano odio di classe. Oggi si parla di privilegi di casta. Ma nella compagine sociale, in fondo, non sembra che sia cambiato molto.