cu arti e cu ngannu
campa mienzu annu
e cu ngannu e cu arti
campa l’atra parti
[Il padrone di campagna / con arte e con inganno / campa per metà anno / e con inganno e con arte / campa l’altra parte]
(Salento) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Ancora un proverbio dedicato ai rapporti sociali, che apre più di uno spiraglio sulle condizioni con cui chi deteneva il potere lo esercitava nei confronti dei sottoposti, e soprattutto sulle reazioni, gli atteggiamenti, la ‘filosofia’ di chi ‘stava sotto’ rispetto a chi ‘stava sopra’.
Negli ultimi secoli del secondo millennio la distribuzione dei ruoli nei possessi fondiari è stata sempre la stessa, tanto nei latifondi a cultura estensiva e povera dell’Italia meridionale quanto nelle ‘cascine’ più ricche e a cultura (anche) intensiva del Piemonte, tanto in Russia (dove si protrasse nel tempo addirittura la servitù della gleba) quanto nella più moderna Pomerania. C’era un padrone, ricco o straricco, spesso di antica – più o meno decaduta – nobiltà, che il più delle volte abitava tanto lontano dal fondo da essere percepito come una divinità potente e astratta, una realtà fra il metafisico e il virtuale, capace – nell’immaginario popolare – di innominabili nefandezze e di leggendarie generosità. E c’era l’amministratore del fondo, colono o affittuario: una figura ben più concreta, perché con lui interagivano quotidianamente i lavoratori della campagna in vario grado sottoposti: decine, o centinaia, di giornalieri, braccianti, mezzadri, bifolchi, contadini, tutti attanagliati da un’endemica povertà.
Questa figura intermedia era legata da un rapporto complesso al padrone, che per lo più lo teneva sotto controllo, diffidando di ogni sua iniziativa autonoma, ma d’altra parte lo teneva legato a sé blandendolo con una specie di ‘connivenza di classe’ impropria, funzionale ai propri interessi. A causa di questo legame ‘strano’ il fattore, agli occhi del bracciante, o del contadino, era l’incarnazione della Proprietà, del Potere, del Comando. Era il padrone, ‘lu patrunu’.
Se il proprietario era lontano e potente come un dio, lu patrunu, più vicino e reale, era un po’ semidio un po’ demone infernale: non faceva miracoli ma possedeva tutte le arti per vessare il povero sottoposto. Era una creatura doppia: sapeva utilizzare l’inganno come gli uomini malvagi, e l’arte – il sortilegio – come le creature infernali.
Il nostro proverbio descrive in modo magistrale questa doppia proprietà, distribuendola (oggi si dice ‘spalmandola’) su tutto l’anno: sei mesi per le arti, sei mesi per gli inganni.
Ma oltre al contenuto si osservi la struttura ritmica. È fatta in modo da consentire una facile memorizzazione, grazie a un andamento cantabile e all’uso sapiente di figure retoriche elementari ma efficaci. Non c’è solo la rima baciata, che è la rima più ‘facile’ (ngannu / annu; parti / arti) ma c’è anche l’inversione (cu arti e cu ngannu / cu ngannu e cu arti), la simmetria, l’anafora (campa / campa), e una metrica ‘esperta’: se si estrapola la e che lega le due coppie di versi, si ottiene una quartina di versi senari, cioè di sei sillabe con l’accento sulla penultima, e con un’alternanza di schemi metrici che dà al proverbio un ritmo scandito, quasi da filastrocca.
Per questi motivi la prima impressione che se ne ricava è di piacevolezza. Perché lo spirito di questa poesiola non è contestatore, non è rivoluzionario. Non si avverte alle spalle la lotta di classe né l’ansia di scalata sociale. Al più, il brontolio disincantato di chi ha capito come va il mondo, e fa della sua chiave di lettura un sospiro filosofico, un’amara pillola di saggezza, ma anche – nello stesso tempo – uno schizzo di colore, uno ‘scherzo’ musicale, quasi un ‘allegro’. Pensiero, colore, musica si fondono in questo piccolo gioiello di cultura popolare con la funzione specifica di creare uno strumento che aiuti a sopravvivere, in un mondo di diseguali in cui il povero sa di essere inchiodato, forse per sempre, al suo ruolo subalterno.