[Dio li contrassegna, e tu evitali]
(Tarantino) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
La lettura di questo proverbio è molto facile, e anche gratificante per noi ‘moderni’. È la condanna senza appello di chi è ‘segnato’ dall’handicap (uno zoppo, uno sciancato, un sordomuto), una condanna per noi segno di arretratezza, di barbarie, di inciviltà, espressione di una concezione superstiziosa e fondamentalista della religione, che ha le sue radici nella lunga fase dell’innesto del Cristianesimo sulla base religiosa pagana e occupa tutto il Medioevo e ben oltre, sino al Settecento, il secolo della scienza e del progresso, di cui siamo (o almeno diciamo di essere) figli.
Una concezione che identificava rozzamente la pratica religiosa con la contrapposizione manichea tra il Bene e il Male, e aveva come conseguenza la caccia senza quartiere al Maligno e alle sue molteplici incarnazioni: le streghe, i posseduti dal Diavolo, i deformi, tutti i ‘diversi’, in qualche modo marchiati da segni riconducibili al Maligno.
Se è vero che i proverbi sono una forma di legge non scritta che governava la società, dobbiamo dunque pensare ai nostri avi come a una società che selezionava i suoi membri sulla base dell’integrità fisica, ed era ferocemente impietosa verso i più sfortunati.
Ma era proprio così? E noi siamo così civili, progrediti ecc. come ci vantiamo di essere? Torno con il ricordo agli anni della mia prima infanzia, in un paesino allora bloccato a un livello di modernità suppergiù paragonabile al Medioevo: con i rapporti di mezzadria più vicini alla servitù della gleba che alla colonìa, circolazione di danaro così scarsa che i rapporti commerciali si regolavano più spesso con forme di baratto, ecc. Ebbene, nel mio paesino – ma anche in quelli vicini, a quanto ricordo – vivevano due-tre giovani portatori di handicap anche gravi (uno era anche un trovatello) sia di tipo fisico che cognitivo (allora si diceva semplicemente ‘scemi’). È vero, i ragazzi ‘normali’ li prendevano in giro, spesso li sbeffeggiavano, ma mai con la cattiveria che vediamo oggi in sciagurati filmati esibiti su Youtube; e, soprattutto, nel paese c’era sempre qualcuno che – magari a rotazione - si occupava di loro, assicurando vitto e alloggio e un minimo di assistenza (in cambio, ad esempio, di lavoretti compatibili con l’handicap). Insomma la comunità, sia pure entro certi limiti, se ne faceva carico. Non sarà il massimo, ma c’era attenzione e persino – per molti versi – rispetto. E oggi? Abbiamo demandato tutto a strutture che si stanno rivelando sempre più insufficienti, e in compenso non avvertiamo più il problema come nostro: non ci faremmo più carico in nessun modo di questi estranei in difficoltà.
In questo caso, dunque, il proverbio è contraddetto dalla realtà? Sì e no. Il fatto è che non tutti i proverbi nascono dallo stesso ambiente, dallo stesso strato sociale. Questo sembra nascere, piuttosto che dal popolo, dalla precettistica della ‘Chiesa persecutrice’, che vedeva nell’essere deforme l’impronta delle fattezze del Diavolo. A conferma, un altro proverbio sulla stesso tema ancor oggi noto nel Tarantino: Ntra nnu cuérpu stuértu / no ppò sta nn’anima tretta [In un corpo storto / non può stare un’anima dritta]: qui la terminologia e la stessa tecnica argomentativa riecheggiano esplicitamente diatribe medievali su anima e corpo, più che il sentire dell’uomo della strada.
In conclusione, credo si possa dire che non una ma almeno due sono le matrici socio-ambientali del proverbio in Italia: la piazza e l’altare. Rispecchiando esattamente il doppio binario sul quale corre ancor oggi la vita della nostra società: laico e religioso, tollerante e intollerante, solidarista e individualista.