
[Devi portare rispetto al cane del padrone]
(Area barese) di Alberto Sobrero

Bruno Maggio. China
Un servo e un padrone: hanno nomi diversi, in popoli e in momenti storici diversi, ma sono sempre loro: uno che comanda, anche con soprusi umilianti, e uno che deve obbedire, prostrato e deferente. Uno che sta sopra e uno che sta sotto. Nell’immaginario popolare il padrone veste abiti più spocchiosi che eleganti, indossa i simboli del benessere (non solo calze e scarpe, ma anche il gilè, il farfallino, l’orologio ‘a cipolla’ con catena), fuma la pipa, ha un portamento austero. Ed è spietato: manifesta il suo autoritarismo selvaggio nei modi più umilianti, esigendo l’omaggio non solo per sé ma anche per i suoi sodali, per la sua corte, per tutti coloro che – adulandolo e traendone vantaggio – gli stanno intorno: uomini e bestie. Il poveraccio – malvestito e malnutrito – subisce, perché così va il mondo, e così gli hanno insegnato a fare, se vuole sopravvivere in qualche modo. Glielo ha insegnato la Chiesa, e glielo hanno insegnato i genitori e i nonni e i bisnonni… e anche i proverbi, saggezza degli antichi, leggi senza tempo, che hanno per lui la validità di precetti generali, appena un po’ al di sotto dei dieci comandamenti.
Con proverbi come questo siamo quasi sempre in una società contadina, caratterizzata da una divisione in gruppi sociali rigidamente chiusi, priva di ascensori sociali, poverissima, regolata dalle leggi non scritte (e comunque non lette) della devozione e del rispetto. Una società che percepisce e soffre l’ingiustizia sociale ma non sembra avere spirito di ribellione. Non è ancora toccata dall’ansia del riscatto sociale né da miti egualitari.
Questo in generale. Ma ci sono anche proverbi che, sotto la crosta della rassegnazione senza tempo fanno intravvedere lampi di ribellione: domati, repressi, forse ‘censurati’ dallo spirito dominante della Vandea, ma spie di inquietudini che gonfieranno la storia. Un altro proverbio barese dice: Vése quèdda méne ca non pute trunché (“Bacia quella mano che non puoi troncare”). Di solito lo si interpreta come disponibilità all’umiliazione estrema; a me invece piace vedere come centrale la voglia di trunché la méne che – insoddisfatta – giustifica l’umiliazione. È il lampo della ribellione, la voglia improvvisa di buttare all’aria il tavolo delle regole, di capovolgere la società delle ingiustizie e dei soprusi, magari con la violenza. Un momento, un sogno, inesorabilmente sconfitto (non pute trunché): ma sufficiente per farci intravvedere, dietro la cappa della rassegnazione, un fiotto di sangue vivo.
Ci dice che la spinta egualitaria, che oggi è il sale della vita sociale, viene da istinti di rivolta domati e repressi, ma vivi anche nelle società che oggi ci sembrano più omogenee e conservatrici. Certo, per trovarne le tracce bisogna raschiare la spessa patina di rassegnazione e di conformismo che i patruni hanno spalmato a piene mani sulla storia degli umili. Ma ci sono. Persino nei proverbi pugliesi.