disse ca era capu mulinaru
[Quando la pulce si vide nella farina / disse che era capo mugnaio]
(Proverbio salentino, ma diffuso in varianti diverse in tutta la Puglia) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Una scenetta in due versi. Fulminante. La pulce si trova in un mucchio di farina, si guarda intorno stupita ed esaltata e subito decide di autoproclamarsi capo mugnaio.
Il contadino – o il garzone o la massaia – pugliese che ripeteva questo proverbio in casa – magari parlando con i figli – o all’osteria o al lavoro, sapeva che chi ascoltava avrebbe tradotto subito le immagini di questa scenetta in una narrazione. Più o meno questa: anche l’essere più piccolo e insignificante, se si trova per qualche motivo in mezzo alle ricchezze, spesso si monta la testa, si gonfia di superbia e si attribuisce meriti e titoli che non ha, esponendosi al ridicolo. Da una scenetta una narrazione, e dalla narrazione la regola di vita: non bisogna mai montarsi la testa, anche quando le cose vanno bene. Ogni uomo deve contenersi nei limiti che ha fissato per lui la natura, o il Signore.
Così funzionavano i proverbi ‘morali’: rappresentavano con una metafora, di solito presa dal mondo degli animali, e in qualche modo divertente, o attraente, vizi e virtù degli uomini. Nella società dei proverbi questa rappresentazione innescava automaticamente un insegnamento morale, che così passava di padre/madre in figlio/a, e poi di figlio in nipote e così via.
È una tecnica vecchia come il mondo, e si è sempre usata non solo nei proverbi ma anche nelle favole per bambini (la volpe e l’uva, il lupo e l’agnello, il bue e la rana...), sempre con lo stesso fine: conservare e riprodurre attraverso le generazioni il sistema di regole che governa la società e che si ritiene il migliore possibile.
In quest’operazione i proverbi attingono a una galleria limitata di personaggi proprio perché contano sul fatto che il nostro comportamento è ripetitivo. Noi pensiamo che gli uomini cambino, nel tempo, e prendiamo in giro i nostri genitori e i nostri nonni perché ci riteniamo diversi, più moderni, migliori. Invece i nostri schemi di comportamento non cambiano, dai tempi dei tempi: il gradasso, l’avaro, il sempliciotto, il corrotto e il corruttore, l’iracondo e il flemmatico... sono tipi che ricorrono nelle commedie, per quel che ne sappiamo, fin dall’antichità greca (ma forse anche prima). Anche il personaggio umano che agisce dietro le quinte del nostro proverbio è un tipo eterno.
C’è sempre un uomo-pulce che s’infarina e si nomina capo supremo, dandosi arie da uomo superiore, e non si accorge che gli altri continuano a vederlo per quello che è, una piccola e insignificante pulce infarinata. Anzi, oggi ce ne sono più di prima, perché la ricchezza è diventata l’obiettivo principale della vita, e molti pensano che li nobiliti e li faccia crescere automaticamente nella considerazione degli altri. Così non è, invece, e il mondo si è riempito di uomini – e donne – pulce, molto infarinati ma piccoli piccoli.
I proverbi magari non si usano più, ma la realtà a cui si riferiscono c’è ancora. Con modi e in vesti diverse, ma c’è. E tutto fa pensare che ci sarà, per qualche millennio ancora.