[Povera me! – disse la cozza – Chiunque passi mi schiaccia]
(Salento) di Alberto Sobrero
Bruno Maggio. China
Potenza del proverbio (in questo caso salentino). Bastano due versi, nove parole in tutto, per disegnare con pochi tratti il carattere di una società, la sua filosofia di vita.
È un quadretto di genere, una scenetta fulminante, costruita come nelle favole classiche, con tre ingredienti: un animale che parla, un uomo che prevarica, una morale. L’animale è la cozza, che nella cultura popolare simboleggia una cosa o una persona che vale poco o nulla: non ha personalità, non ha bellezza – ‘è una cozza’ si dice anche oggi di una donna molto brutta – ha un valore commerciale infimo. L’uomo prevarica schiacciando la cozza: e commette una violenza doppia, perché la compie senza neppure accorgersene, pensando che il suo comportamento sia naturale, scontato, ovvio. La morale è: rassegnati, povera cozza. La violenza e l’ingiustizia sono insite nella natura umana, in tutte le società: chi la compie non se ne accorge neppure. Sarà sempre così, perché è una legge di natura.
Il ritmo è scandito, la metrica è popolare: un novenario seguito da un ottonario, una rima baciata che è anche rima imperfetta. È la struttura delle massime morali, autorevoli e indiscutibili. E tramanda un messaggio di amara rassegnazione, senza luce e senza speranza.
C’è di più. Un messaggio di così profonda rassegnazione non è esclusivo di questo proverbio. Al contrario, attraversa quasi tutti i proverbi della Puglia meridionale. In nessuno si affaccia mai, e neppure si avvista in lontananza, l’idea di ribellarsi, di cambiare qualcosa, di far circolare idee di giustizia, o di libertà. L’unica reazione alle ingiustizie è un sorriso amaro. La cozza/suddito vale poco: viene calpestata e trova la cosa sgradevole. Nulla più. Un’esclamazione di disappunto, al massimo un’imprecazione. Come quando il tempo si guasta o il raccolto è scarso. A bassa voce, per non disturbare chi comanda.
Nel mondo tradizionale, contadino e conservatore, la legge universale, non scritta, era proprio la legge del silenzio, della rassegnazione, della remissione. Non lo scrivevano i filosofi nei loro trattati, ma lo ‘sentivano’ gli umili, gli illetterati, gli ultimi: quelli che orientavano il loro timone sulle rotte indicate dalle uniche tre guide morali e materiali: la Chiesa, la tradizione (e dunque i proverbi), l’istinto di sopravvivenza. Tutti orientati verso la conservazione, il fatalismo.
Da un proverbio, umile, popolare e antico come il dialetto in cui si esprime, ecco un bell’esempio di testimonianza concreta non delle condizioni di vita materiale – per quelle abbiamo i reperti dell’archeologia e della cultura materiale – ma dello stato d’animo con cui il popolo affrontava, giorno per giorno, la durissima lotta per la sopravvivenza: insomma, di come si vivesse e si pensasse realmente, in Salento, uno o due secoli fa.
E le cose che ci dice non si fermano qui. Qui vediamo lo stato d’animo, la condizione esistenziale di fondo di una civiltà. Vedremo presto, con altri proverbi, che su questo sfondo – pessimistico, amaro, fatalista – si staglia una realtà più complessa, articolata, vivace. Che, possiamo già anticipare, non è sempre e non è proprio tutta nera.