Nel Parco delle Gravine, per la prima volta al mondo con questa specie, si sta tentando una tecnica di reintroduzione di Antonio Sigismondi
Capovaccaio in volo. Foto di Antonio Sigismondi
I grandi canyon carsici che caratterizzano il territorio delle Gravine hanno da sempre ospitato il volo di un rapace tanto elegante quanto raro: il capovaccaio. Si tratta di un avvoltoio, una delle quattro specie conosciute per l’Italia ed anche, oggi, quella a maggiore rischio di estinzione, un rischio più che concreto visto che in tutta Italia, attualmente, non sono presenti più di 10-12 coppie nidificanti. Considerato che intorno agli anni Sessanta-Settanta in Italia erano presenti circa 70-80 coppie, e che nell’area delle Gravine ce n’erano circa 7-10, il trend di riduzione appare veramente drammatico.
La situazione della popolazione delle Gravine rispecchia quella dell’Italia, con una forte riduzione, e sono diversi anni che la specie, pur essendo presente, non nidifica.
Eppure il capovaccaio appare una specie opportunista, cioè non particolarmente specializzata. Si ciba di piccoli animali morti, placente di mammiferi che partoriscono in libertà (soprattutto animali al pascolo, abitudine a cui è legato il suo nome, in quanto segue abitualmente le vacche al pascolo), resti di macellazione, rifiuti, escrementi, frutta e verdura marcescenti, nonché di insetti e altri invertebrati che probabilmente rappresentano le uniche prede cacciate regolarmente. In Italia predilige zone destinate al pascolo del bestiame brado, con ridotta copertura boschiva e bassa presenza antropica, dal livello del mare sino a 1.000-1.500 metri di quota.
Le cause principali che hanno determinato la forte riduzione di questa specie in Italia sono fondamentalmente le stesse che hanno agito in modo negativo nell’area delle Gravine: scomparsa e trasformazione di habitat, disturbo, riduzione del pascolo brado (una delle sue principali fonti di alimentazione), depredazione dei nidi con sottrazione dei piccoli, mortalità degli adulti e soprattutto l’avvelenamento sembra una delle cause più gravi.
L’insieme di questi fattori agisce su una specie dalle peculiari caratteristiche riproduttive: infatti, un capovaccaio diventa adulto e può riprodursi solo intorno ai 6-7 anni, producendo un solo piccolo all’anno. Pur vivendo oltre i venti anni ha quindi un basso tasso riproduttivo, cioè nel corso della sua vita produce pochi piccoli. Questo determina, in una popolazione piccola come quella italiana (e quella delle Gravine in particolare), che quando questa scende al di sotto di una certa soglia minima (orientativamente alcune decine di individui in grado di riprodursi) entra in un vortice che tende a portarla rapidamente all’estinzione. La ridotta dimensione numerica, infatti, la rende molto più sensibile nei confronti di quegli stessi fattori che ne hanno causato il declino iniziale o di nuovi fattori che subentrano in seguito: la popolazione tende pertanto a ridursi ulteriormente, innescando una spirale guidata dal caso, difficilmente arrestabile. In questa situazione i nuovi nati non sono in grado di sostituire gli individui che per cause naturali – ma nel nostro caso soprattutto antropiche – muoiono.
L’unica azione di conservazione che può invertire questo trend negativo è il ripopolamento con nuovi individui. Ed è quello che è stato fatto, per la prima volta al mondo con questa specie, nel Parco delle Gravine, mettendo a punto una specifica tecnica di reintroduzione. Sono stati infatti reintrodotti in natura sette giovani capovaccai nati in un centro di recupero; alcuni, dotati di trasmittente satellitare, hanno per la prima volta fornito informazioni sulle rotte di migrazione e le aree di svernamento. È stato un grande successo scientifico in quanto alcuni individui, dopo alcuni anni, sono tornati e si spera possano ricostituire, nel Parco, una popolazione nidificante di questa splendida specie.